Patti Smith: Dream of Life

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Voto al film:

Un ritratto a rispettosa distanza

Patti Smith fa parte, probabilmente anche a causa della sua parchissima frequentazione di droghe, dei sopravvissuti di un’epoca. Parlare di lei significa squarciare una dimensione parallela sul Chelsea Hotel, su Bob Dylan giovane, su William Burroughs, su Allen Ginsberg, sul suo alter ego Robert Mapplethorpe. Sentirla raccontare del passato, spesso fuoricampo, nel documentario di Steven Sebring fa pensare a come sarebbe stato ascoltare le storie di Marcello, Schaunard e Colline direttamente dalla voce di Henri Murger. Rodolfo, aggiornato agli anni Settanta, diventerebbe il Johnny di Land. Questo paragone, lo so, la delizierebbe.

Tutto sommato, il documentario Dream of Life non aggiunge niente a quello che i fan già sanno della Sacerdotessa, un appellativo confermato dal suo modo di parlare che, in pubblico, è sempre al limite del salmodiante – forse perché consapevole della patina mitica incrostatasi sul periodo che l’ha formata come artista e sulla sua stessa figura, forse per vincere una timidezza che i mille palchi calcati non hanno scalfito. Perché è noto che Patti Smith si è trovata a fare la rocker, da poetessa che era ed è, per caso. Suona ancora la chitarra acustica strusciando col pollice e nel film la buonanima di Sam Shepard la rimprovera. È noto quanto sia colta, appassionata di arte (Pollock), poesia (Ginsberg, Corso), musica rock (Dylan), musica classica (Callas), voci jazz (Christie, Holiday), teatro (appunto, Shepard), cinema (Don’t Look Back). In vita sua, ha amato l’arte e gli artisti. Quelli morti (Whitman, Baudelaire, Rimbaud), quelli che ancora debbono nascere, quelli non riconosciuti in vita (Blake). Nel film va a trovare quest’ultimo, Corso e ovviamente il suo Rimbaud al camposanto: come tutti i veri bohemien, nei cimiteri dove sono sepolti artisti, Patti Smith si sente tra amici.

Non si aggiunge niente neanche all’estetica visiva associata al suo personaggio: nella fotografia prevale il bianco e nero che richiama palesemente Robert Mapplethorpe e che tradisce il rispetto del videomaker (che l’ha fotografata e filmata a partire dal 1995) per chi sta filmando e per i suoi amici stretti. In undici anni, la vicinanza di Sebring alla persona c’è stata: lo percepiamo in alcuni passaggi, tipo i discorsi toccanti sulla morte del fratello Todd. Ma anche quelli a un certo punto diventano un filosofare astratto sulla morte. Non si varca mai una certa soglia d’intimità. Neanche quando si parla di acrobatiche orinate in aereo. Il regista viene fermato prima. Gli unici due punti in cui si riesce a penetrare attraverso la corazza della Smith sono durante una commossa lettura di Ginsberg in pubblico e quando, in maniera falsamente fredda e controllando le emozioni, la vediamo estrarre da un oggetto a lei caro un pugnetto di ceneri di Mapplethorpe. Il resto della narrazione, anche quando vediamo i due bimbi crescere (e Jackson diventare il suo chitarrista) o il giardino dov’è cresciuta, è delicata bellezza filmata a rispettosa distanza. Sembra che la Smith si protegga dall’occhio meccanico di Sebring riproponendo la narrazione del suo personaggio. Oltre alle interviste fatte dal videomaker e alla voce fuoricampo, il resto del materiale è costituito da girato di repertorio: dichiarazioni fatte in gioventù, foto assieme agli amici del tempo che fu in un periodo “in which all my friends were alive”. Bella la sequenza in cui la poetessa balla nella sabbia a Coney Island, che già di per sé è un luogo della memoria di tempi migliori oramai andati, sopra la canzone Cartwheels.

Insomma questo Dream of Life conferma Patti Smith nel suo essere punto di riferimento della cultura mondiale e new yorkese. Esito a scrivere “statunitense” (nonostante la rinnovata fama dopo l’uscita del libro Just Kids) perché so quanto poco mainstream sia il suo nome negli States, al di fuori della Grande Mela: una pena quella del nemo profeta in patria che sconta assieme a Woody Allen. Questo documentario è quasi un riassunto, un devoto bignami audiovisivo ben fatto (e perciò premiato), non tanto della vita di Patti Smith quanto della sua personalità artistica, del suo essere poetessa, performer, attivista, sorella maggiore della generazione nata nei Sessanta (Stipe, Cobain) e fulcro della rete di voci artistiche (di vivi, di morti) a lei attigua. “We had dreams and we created George W. Bush”. Beh, per bilanciare un George Bush o un Donald Trump (più giovane di lei un anno), grazie al cielo quella generazione c’ha anche regalato la sua voce.

SCHEDA TECNICA
Patti Smith: Dream of Life (Id., Stati Uniti, 2008) – REGIA: Steven Sebring. FOTOGRAFIA: Phillip Hunt, Steven Sebring. MONTAGGIO: Angelo Corrao, Lin Polito. Musica: Patti Smith. CAST: Patti Smith, Lenny Kaye, Oliver Ray, Flea. GENERE: Documentario. DURATA: 109′. Trasmesso da RAI 5 l’8 marzo 2018

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