Mary Shelley – Un amore immortale

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Voto al film:

Rockmantici

Figlia di due filosofi, la proto-femminista Mary Wollstonecraft (morta per conseguenze del parto) e l’illuminista William Godwin, Mary cresce colta e sicura di sé: ha sedici anni, vuole bene alla sorellastra Claire Clairmont ma detesta la matrigna. L’incontro con il poeta Percy Bysshe Shelley le sarà fatale: l’ammirazione per la libertà morale della madre defunta la porterà a scelte di vita non convenzionali di cui pagherà lo scotto. Il frutto di tutto ciò sarà Frankenstein, nato in parallelo al Vampiro del dottor John Polidori. Entrambi i lavori saranno a fatica attribuiti ai loro legittimi autori – Mary vedrà stampato sul libro il nome del futuro marito, perché donna, e Polidori vedrà stampato il nome del suo celebre datore di lavoro, Lord Byron.

Vorrei far notare che la Gran Bretagna audiovisiva mainstream sta, da tempo e per ragioni che mi sfuggono, tracciando una linea sottile mitopoietica (totalmente mistificante) tra l’immaginario rock e i poeti romantici. La stessa sorte era toccata anni fa al nipote del povero Polidori, Dante Gabriel Rossetti, in una miniserie TV del 2009 dal titolo (emblematico) di Desperate Romantics. Rossetti (il genio ribelle), Millais (il bello e gentile), Hunt (il mistico) e Fred Walters, (nella parte di Ringo), erano stati sovrapposti a tante di quelle leggende rock da perdere il filo. I quattro Beatles ma anche Jim Morrison, Pam (Lizzie Siddal) e Pat (Fanny Cornforth). Stessa sorte, apparentemente, è toccata alla generazione di poeti precedente. All’appello adesso manca solo Coleridge e la sua dipendenza da oppio im-pastiche-ato con Lou Reed.

Intanto, in questo Mary Shelley – Un amore immortale (che se non parlasse di persone veramente esistite sarebbe anche un film d’amore medio) ci si chiede dove sia finito il giovane Keats, che Percy Bysshe conosce più o meno ai tempi della seconda parte del film se non vado errata. Il povero Thomas J. Hogg, di cui Mary divenne in effetti amante, viene fatto passare per una sorta di attentatore alla psiche della futura scrittrice, sempre meno a suo agio nella concezione di vita poligamica che era stata di sua madre e che il suo futuro marito, questa sorta di Harry Styles di fine settecento, sposa senza rimorsi. Ci si chiede anche perché Lord Byron sia diventato una star del glam rock, un dott. Frank’n’furter che schiavizza e sbeffeggia il sensibile Polidori. Trattandosi dell’autrice di Frankenstein, mi rifiuto di pensare che gli autori non abbiano pensato almeno un po’ al personaggio di Tim Curry (e al suo rapporto con Eddie, interpretato da Meat Loaf).

Ma soprattutto, questi intellettuali sullo schermo non discutono mai senza essersi almeno scolati un totale di vino equivalente alla portata del Tamigi. Shelley sfatto sul divano, Byron dissoluto come negli anni Settanta (del Novecento!), Claire Clairmont groupie ingenua (e però l’unica che lavora, a parte Mary e Polidori)… posso capire che certe sovrapposizioni siano a uso e consumo delle giovani generazioni per avvicinare grandi del passato a un immaginario più prossimo. Ma non riesco a non vedere in queste operazioni “rockmantiche” (prendendo un termine in prestito da Alberto Camerini) una sorta di fallimento: un film (ma anche una serie televisiva) dovrebbe creare un immaginario, non appoggiarsi smaccatamente ad altri medium.

E quanto a personaggi veramente esistiti, so bene che le loro vite vanno drammatizzate estraendone dei temi chiave. Per Mary, la non-attribuzione della paternità del romanzo, in quanto donna, era un ottimo tema per cominciare (le Brontë hanno poi avuto lo stesso problema), ma perché insistere tanto sulla poligamia, se non per moralismo, quando non siamo neanche troppo sicuri di cosa Mary ne pensasse davvero? Perché insistere sulla donna che mantiene il controllo in situazioni dove i poeti incoscienti si sballano se non per dare un messaggio alle ragazze dell’età di Mary che si disfanno ogni weekend? Quella non è neanche lontanamente Mary Shelley. È forse, in parte, Cynthia Lennon. Voglio dire, vorrei per una volta vedere un prodotto commerciale dove si fa un po’ di ricerca approfondita, ci si crea un’idea forte e propria sulla persona di cui si sta parlando e si dà giusta riconoscenza a chi, con la propria creatività (e non con le proprie sbronze o il proprio laudano) ha lasciato il segno – il mestiere creativo non è una cosa per perdigiorno sempre sbronzi, e già la gente lo crede! E le fiction storiche brutte sono una piaga da cui bisognerebbe liberarsi. Soprattutto al cinema.

SCHEDA TECNICA
Mary Shelley – Un amore immortale (Mary Shelley, USA-Inghilterra-Lussemburgo, 2017) – REGIA: Haifaa al-Mansour. SCENEGGIATURA: Emma Jensen, Haifaa al-Mansour. FOTOGRAFIA: David Ungaro. MONTAGGIO: Alex Mackie. MUSICHE: Amelia Warner. CAST: Elle Fanning, Maisie Williams, Douglas Booth, Joanne Froggatt. GENERE: Biografico. DURATA: 120′

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