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In onda il mercoledì 25 ottobre su Rai 5, ore 22.45
I Doors a due dimensioni
The Doors: When You’re Strange, nonostante il titolo, di strano non ha proprio nulla: è un documentario compilativo che registra cronologicamente la parabola della band.
Nulla manca e, forse per la prima volta, si dà finalmente spazio a Ray Manzarek, Robby Krieger e John Densmore, musicisti i cui meriti vengono regolarmente offuscati dalla presenza troppo ingombrante di Jim Morrison: non a caso il documentario è stato salutato da Manzarek come “la vera storia dei Doors”. La figura di Jim Morrison appare multiforme: un poeta, uno showman, un alcolista, un sex symbol che strizza l’occhio alla politica.
Ma ecco l’elemento disturbante: DiCillo è la prova di come sia possibile plasmare una materia esplosiva fino a renderla mera cronaca. A disturbare è il senso di distacco sprigionato dalle immagini, che indulgono sì a momenti di lirismo (perlopiù ricreati a partire da HWY: An American Pastoral), ma abbastanza misurati da obbligare lo spettatore a vedere senza guardare, ad essere informato dei fatti senza partecipare. Le scelte formali appaiono ordinarie: immagini di archivio e stralci di performance live vengono adornati da poesie recitate dallo stesso Morrison e da trite immagini di repertorio che fungono da inquadramento storico. Il tutto commentato da una voce fuori campo. Difficile liberarsi dall’impressione che si tratti di un prodotto dal confezionamento troppo scolastico. Certo, la firma di un regista indipendente avrebbe lasciato sperare in una maggiore libertà espressiva, ma si sa: il mercato. Se “la musica dei Doors trascina l’ascoltatore nel regno del sogno”, lo stesso non si può dire per lo spettatore.
Ebbene, la sfida è ancora aperta: riuscire a portare sul grande schermo l’esasperata ritualità dei concerti dei Doors e dar conto di un preciso apporto culturale, timidamente suggerito in Feast of Friends e insidiato dal ridicolo involontario nel biopic di Oliver Stone, The Doors. Già, perché negli anni Sessanta, parallelamente alla nota pulsione a guardare sempre più a Ovest che aveva spinto gli Stati Uniti a scoprire l’Oriente, complice il movimento del Red Power e il rinnovato interesse per l’antropologia, lo sguardo iniziava a dirigersi verso il basso, alla ricerca di un’identità culturale. In una fusione di mondi che va dalle civiltà precolombiane alla cultura dei nativi, dal Cristianesimo al teatro greco, con un gusto per il sincretismo tipico di quel grande calderone che sono gli Stati Uniti, la performance di Jim Morrison ha l’effetto catartico di una cerimonia in cui si esorcizza il senso di colpa di una nazione che nasce e si rigenera nel sangue.
Ma tutto questo, a quanto pare, non si imprime su pellicola.