Un eroe nascosto
La vita nascosta racconta la storia vera, narrata nello stile inconfondibile di Malik, di Franz Jägerstätter: un obiettore di coscienza austriaco che ha rifiutato di arruolarsi e combattere la Seconda Guerra Mondiale al lato dei nazisti. Per questa ragione è stato prima isolato e discriminato dalla comunità del piccolo paese nel quale abitava, poi imprigionato e alla fine condannato a morte come traditore. Adesso per la Chiesa Cattolica è un beato.
L’aggancio con il presente è chiaro: la trasformazione degli abitanti del paesino montano di Radegund da allegri membri di una comunità unita a causa prima dell’isolamento sociale di Franz ci ricorda un po’ – nei limiti dell’allegoria e non del paragone – l’odio e la rabbia che al giorno d’oggi un numero fin troppo cospicuo di ultras traduce in politica. Ma il tocco di Malik riesce a rendere la storia straziante – e vera – di un martire cristiano (simile ad altre storie note come quella di Sophie Scholl) in qualcosa di più poetico che angosciante, più portatore di speranza che di disperazione. Lo stesso villaggio è ben lontano dal trasformarsi in un contesto alla Dogville, che probabilmente ne è per molti versi l’opposto speculare. Il punto non è parlare di violenza o di sadismo o di vuoto morale ma chiedersi perché cose terribili accadono alle persone buone, senza spiegazioni semplici nichiliste, ma alla maniera di Malik e all’interno di spazi che Buzzati avrebbe definito “pieni di Dio”. Bello l’inserto meta cinematografico dove il paesano che dipinge gli affreschi dice a Franz di raffigurare sofferenze che non ha vissuto, come in un certo senso sta facendo il cineasta.
Poi c’è la posizione imbarazzata della Chiesa: il vescovo che non si sbilancia per paura di ripercussioni, il parroco che supporta spiritualmente Franz ma che vorrebbe evitare il suo martirio, consigliando in ultima istanza di non farsi impiccare e giurare fedeltà a Hitler, tanto per Dio conta quel che uno ha nel cuore. E c’è il dichiarato ritorno a una narrativa “più convenzionale” e sceneggiata di Malik, che paga: il film è bello, la trama e i monologhi interiori o epistolari filosofici sono ben bilanciati con la diegesi. Il film convince anche i più infastiditi dall’ossessione cristologica del regista (sto pensando a Marcello Barison de “Il fatto quotidiano”).
La musica originale è di James Newton Howard, il quale ha definito il suo lavoro “una colonna sonora dal suono spirituale” nella quale si sente la speranza, la sofferenza e l’amore. Per Nyqvist e Bruno Ganz è stato l’ultimo film, il grande attore svizzero che a suo tempo ha interpretato Hitler è il giudice che suggella la condanna a morte di Jägerstätter, ricordandogli che la sua obiezione di coscienza non serve a niente: la guerra continuerà lo stesso e nessuno saprà del suo gesto. Ma seppure nascosto, il gesto del protagonista ha un senso e una forza ben precisi e contestualizzati in quello spazio di natura, prati verdi, banchi di nuvole e montagne alpine dell’altopiano di Siusi (in Alto Adige) che, con la sua bellezza, ricalibra il senso di ogni azione umana.