Ricordi dalla tana del bianconiglio
La sensazione di appagamento che coglie lo spettatore e appassionato alla fine di Looking for Lennon è direttamente proporzionale al suo dubbio iniziale, inevitabile, sulla possibilità che un piccolo documentario di 93’ aggiungesse qualcosa al mare magnum del materiale già scritto, filmato e musicato negli ultimi sessant’anni su John Lennon. Non perché racconti nulla di nuovo al beatlemaniaco – anche se i non appassionati troveranno certamente spunti di interesse e richiami ad approfondire, ma per l’umiltà e la passione con cui mantiene fede al proprio titolo, preferendo alle grandi sintesi un approccio che verrebbe da definire “rabdomantico”.
Per quanto si possa sicuramente inscrivere il film di Roger Appletone (con quel cognome un predestinato…) fra gli esponenti più intimisti dell’esegesi lennoniana, la questione non è infatti semplicemente risalire all’uomo dietro l’icona leggendaria; gli aspetti di profilazione psicologica non sono l’unico, e forse nemmeno il vero punto d’approdo di questa ricerca, il cui fascino placido e lievemente nostalgico deriva invece da una disponibilità, piuttosto rara in questo genere di operazioni, a lasciare che soggetto e contesto si sposino armoniosamente illuminandosi a vicenda; a lasciare che il “terribile ragazzino miope” – come lo definiva Philip Norman nel retrocopertina del suo imprescindibile Shout! La vera storia dei Beatles (1981) – scorrazzi libero nel proprio ambiente e nel proprio tempo.
Se di “dove andiamo?”, domanda in questo caso retorica, il documentario si disinteressa del tutto, chiudendosi bruscamente proprio alla vigilia del successo dei Fab Four, “Chi siamo?” e “da dove veniamo?” ne costituiscono organicamente l’unico centro, e proprio in questa forma plurale: con dolorosa ironia rispetto a quanto apprendiamo sui molti lutti della sua vita, Lennon non è mai solo e non è mai solo Lennon, ma è di volta in volta un discendente di irlandesi, la cui predisposizione culturale all’ironia è messa in relazione col suo personalissimo e caustico humour; un figlio della Seconda Guerra Mondiale nato sotto le bombe dei nazisti, che come tanti bambini inglesi dell’epoca addomesticava il dramma storico con fughe fantastiche dalla realtà fra gli alberi di un parco a ingresso vietato o le pagine di un racconto di Carroll (realtà “topicizzata” in quegli stessi anni dalle Cronache di Narnia di C. S. Lewis, ma popolarissimo era anche Il giardino segreto di Frances Hodgson Burnett); uno studente di college brillante ma svogliato, accentratore e spesso maligno.
Tanta naturalezza, che sposata ai sottintesi del mito e della passione genera nello spettatore un senso toccante di vicinanza impossibile, è il prodotto di uno stile mai affermativo o apodittico, che si “accontenta” di chiedere ancora e ancora, agli amici d’infanzia, alle compagne della scuola di Belle Arti, ogni tanto a biografi o professori universitari, ma soprattutto a una serie di luoghi ormai avvolti da una patina quasi folklorica (la casa di zia Mimi, l’auditorium del primo incontro con McCartney, il cancello pittato che dà sugli Strawberry Fields). Si confronta l’oggi con le fotografie di ieri, si mette in relazione – con uno spirito poetico che non sarebbe dispiaciuto ai quattro – la topografia o il dato culturale con quanto sappiamo dalle biografie e dalle canzoni. E forse le ragioni per cui un film così semplice sa essere così potente le ha descritte meglio di tutti proprio lui, con una canzone che allo stesso modo, portandoci per mano nella vita di qualcun altro, ce la faceva scoprire dentro di noi.
“There are places I’ll remember
all my life, though some have changed
some forever, not for better
some have gone and some remain..”