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Per la sezione “Film History” presentiamo Strade perdute diretto da David Lynch. Ecco la recensione di Vincenzo Palermo.
Proponiamo qui l’articolo apparso su Mediacritica
Labirinti sinestetici
Nero come il fondo stradale che scorre, velocizzato, sui titoli di testa; “noir” come il genere, decostruito e rovesciato, scelto per raccontare la dissociazione panica di un uomo ossessionato dalla gelosia per una “donna che visse due volte”.
Sotto il “velluto” niente, e neanche dietro il sipario rosso fuoco, o nel fumo che avvolge Diane nell’ultimo atto di Mulholland Drive e che, in Strade perdute, insieme agli improvvisi lampi della fotografia, diventa escamotage per (de)costruire i codici narrativi della storia e amplificare lo slittamento dal sogno al delirio psicogeno.Il niente o il tutto, perché il tutto è solo nella mente. Prima di attraversare, come Fred, il protagonista del settimo film di Lynch, il corridoio in penombra che lo proietta verso un (possibile) uxoricidio, lo spettatore-voyeur deve sperimentare lo scontro kafkiano con una realtà insondabile in una teatralizzazione di interni. Dopo il leitmotiv di I’m Deranged, che apre e chiude il film, compare il volto del sassofonista Fred (Bill Pullman), rischiarato dalla luce della lampada. La vita con Renee (Patricia Arquette) è presto sconvolta da una serie di filmati che “spiano” la loro intimità mettendo a fuoco l’omicidio della moglie da parte dello stesso marito. In carcere Fred scompare e al suo posto si materializza Pete che, uscito di prigione si scontra con un gangster per il possesso di Alice, la stessa Renee in versione bionda. Da Velluto blu a Inland Empire, il nastro di Möbius scorre inesorabile, scomponendo la realtà in un flusso sensoriale che disconnette il vissuto dalla sua dimensione cognitiva. Come una lanterna magica, il cinema di Lynch è canalizzato in un gioco di fughe es(s)oteriche che smantellano l’evidenza fisica per condurci nella dimensione privata di un’allucinazione condivisa. Fin da Six Men Getting Sick, corto girato in 16 mm del 1967, anche il tessuto sonoro, in sinergia con l’elemento visivo e scenografico, ha creato fusioni di luci, colori e suoni – in questo caso partiture jazz che, pirandellianamente, svegliano la coscienza sopita del doppio. Nel labirinto sinestetico dell’ “uomo che amava le donne” il desiderio sessuale incarnato nella statuaria Renee/Alice si fa eidos, torna carne pulsante e fluttua nelle riprese erotiche in una camera oscura, mentre Fred/Pete, nelle sue trasformazioni corporee, abita l’incubo della gelosia e l’impossibilità del possesso. Tra il dramma da camera della prima parte (in cui l’occhio cinefilo è rivolto al Bergman della “crisi coniugale”) e una seconda metà in cui il thriller prende il sopravvento, la “non-indagine” di Lynch scardina la narrazione ordinaria perdendosi nei meandri dell’inconscio. Alla fine, ciò che attende lo spettatore ipnotizzato e affamato di “senso” è lo sprofondare nell’ennesima, stupefacente “Loggia nera”, contenitore psichico che (r)accoglie frammenti di sogno e brandelli d’incubo.
Strade perdute (Lost Highway, Usa 1997) – REGIA: David Lynch. SCENEGGIATURA: David Lynch, Barry Gifford. FOTOGRAFIA: Peter Deming. MONTAGGIO: José Luis Romeu. MUSICA: Angelo Badalamenti. CAST: Bill Pullman, Patricia Arquette, Balthazar Getty, Robert Blake, Robert Loggia. GENERE: Thriller. DURATA: 134 minuti.
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