Il piano galeotto
Il titolo originale del film è The Piano (Jane Campion, 1993): dunque, il pianoforte è il vero protagonista del film, che resta muto quando nessuno lo suona proprio come Ada Stewart, che è muta quando qualcuno le chiede di parlare.
Il pianoforte e la musica del film, affidata al minimalista Michael Nyman (un pianismo comprensibile all’orecchio moderno; fatto di intervalli melodici semplici e ripetitivi), diventano gli strumenti principali di una lettura metacinematografica del film: il rapporto tra finzione e realtà, che al cinema viene risolto grazie a ciò che i semiologi del cinema chiamano “patto spettatoriale” (la Campion lo esplicita anticipando, ad esempio, la scena del taglio del dito – il momento narrativo che tocca le corde più passionali dello spettatore – con la scena drammatica della pièce teatrale, in cui un uomo del pubblico si scaraventa tra gli attori pensando che ciò che sta osservando stia accadendo per davvero), si costruisce anche attraverso “inquadrature sonore”, in cui il gioco metanarrativo si basa su rapporti contrappuntistici di sovrapposizione tra la colonna visiva e la colonna musicale. È fatta, allora, la relazione simmetrica di due scene in particolare: quella in cui Alistair Stewart vede sua moglie suonare un tavolo da cucina – dunque lo spettatore ascolta una musica che è solo nella testa del personaggio; e quella in cui Baines percepisce dal retro di una tenda una musica che proviene da un pianoforte chiuso – dunque, lo spettatore ascolta la musica di un pianoforte che nessuno sta suonando.
L’utilizzo di musica originale contemporanea su una storia di ambientazione ottocentesca – fin dall’inizio lo spettatore-ascoltatore viene disorientato rispetto ad una scelta di regia che non è didascalica – riporta al tema del rapporto tra rispetto e sovversione delle convenzioni: le sperimentazioni musicali del Novecento che vogliono decomporre o distruggere gli schemi formali della musica colta del secolo precedente, riportano – musicalmente – alla volontà della protagonista di infrangere le regole della compostezza sociale rifugiandosi, ad esempio, in un mutismo che è psicologico, non certo biologico (capiamo davvero che Ada non parla ma ci sente quando è lei che si accorge che il pianoforte è accordato, dopo che il complicato trasporto nella casa di Baines faceva supporre che non lo fosse). Ma se pure è vero che «la musica cambia a seconda dell’umore», ci si spiega perché, quando Baines tocca per la prima volta il corpo di Ada, la musica al pianoforte assume il carattere passionale tipico dello stile musicale romantico; mentre diventa dissonante – quasi come un urlo di dolore – quando Ada apprende la notizia dell’imminente partenza di Baines.
I versi di Thomas Hood (tratti dal poema Silence che, si noti, ha lo stesso titolo del saggio sul pianoforte preparato del musicista John Cage), che per la scena finale del film chiudono sul rapporto tra silenzio e suono (è sott’acqua che si svolge il discorso interiore di Ada) riportano, metaforicamente, al rapporto tra morte e vita e, metacinematograficamente, alla costruzione del supporto audio-visivo: il cinema, non era muto prima di diventare sonoro?