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Ritratto in jazz
Di solito riservato e taciturno, Paolo Conte si dona inaspettatamente all’obiettivo di Ingo Helm, autore del mediometraggio Una faccia in prestito, in cui il pianista si racconta in prima persona attraverso aneddoti e confessioni inerenti la sua personalità e la sua arte.
Partendo dalla scoperta del jazz grazie ai dischi dei genitori e a una passione crescente per il trombone – primo strumento del Conte adolescente – fino all’elaborazione della musica moderna americana in una chiave unica e personale, il film alterna interviste a riprese di concerti e prove da cui traspare tutta la genuinità dell’opera contiana. Una musica a-temporale, nobile e al contempo rurale (come le origini del suo autore), intrisa di una malinconia che il compositore stesso definisce “salvifica dalla tristezza profonda”.
Quello di Conte è un universo a sé stante, dove ricordi vicini e lontani convivono “in un tempo fatto di attimi e settimane enigmistiche” dove emozioni, immagini e impressioni prendono vita sulla tastiera, libere da regole e strutture precostituite, ma arricchite da una vorace curiosità per ciò che è nuovo, ascoltato, assimilato e rimaneggiato in forma idonea. Così i pezzi del cantautore si fanno standard, da lui stesso continuamente aggiornati e arricchiti di nuovi suoni e sfumature che amplificano, teoricamente all’infinito, il loro contenuto armonico. Il segreto del jazz, che l’avvocato di Asti ha dimostrato di aver colto sin dai suoi primi lavori, così insoliti da sembrare ai discografici quasi invendibili, ma ricchi di quell’originalità che ha contraddistinto tutta la sua carriera.
Conte è un sperimentatore della musica – si pensi all’uso di sintetizzatori o strumenti elettrificati a costruire eufonie colte e complesse nel contesto tendenzialmente piatto della musica leggera italiana degli anni Ottanta – così come della parola, sempre ricercata, studiata e giocata quale veicolo per comunicare qualcosa di altro rispetto al suo significato primo (“le donne odiavano il jazz/non si capisce il motivo”). È questo stile a fare dell’autore una sorta di moderno Peter Pan che traghetta di canzone in canzone il suo pubblico verso un’isola che non c’è, luogo immaginifico ancorato alla realtà dove vivere avventure ed esperienze salgariane a occhi aperti, dal salotto di casa o al massimo dalla poltrona di una platea.