Made in Italy

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Voto al film:

Generazione di fenomeni Made in Italy

Riko ha cinquant’anni, un lavoro di otto ore giornaliere che ha iniziato quando ne aveva venti, un figlio con un’altra donna, un matrimonio in pezzi, un padre in ospizio, un’amante che gli fa l’occhiolino fra le mortadelle (Riko lavora in una salumeria reggiana) e una compagnia di amici talmente allegri che sembrano sempre sotto sostanze stupefacenti. In breve, è un insoddisfatto. E su questa insoddisfazione ci sta riflettendo. Dice al figlio: “È un attimo farsi andare bene tutto”.

Il suo migliore amico e quasi-guru è un pittore che veste camicie hawaiane e macina perle di saggezza. Si chiama (cattivo presagio telefonato) Carnevale perché è sempre allegro, nonostante abbia problemi di cuore ai quali somma il vizio del gioco che spesso lo fa cacciare nei guai. Riko e Carnevale fanno parte di una di quelle larghe compagnie che andavano di moda negli anni Ottanta, con tanto di conoscente “rimastone” tutto tatuato che ha perso il cervello.

Insomma, Riko è frustrato e si sfoga con l’amico Carnevale. Estrae tutto il repertorio delle lagne standard: dalle sue insoddisfazioni personali allo spread, al Bel Paese e al mondo che fa vomitare. “Il mondo è bellissimo”, gli risponde l’amico, consigliandogli caldamente di guardarlo da un’altra prospettiva e cambiare quel che c’è da cambiare.

Segue una gita a Roma nella quale Riko si ritrova per caso in cima a un corteo di protesta in difesa dell’articolo 18. Un celerino lo manganella in fronte. È come se lo svegliasse. A un giornalista che lo intervista in ospedale, confessa il suo malcontento: “Qualche cosa va fatto”, dice, “ogni giorno t’incazzi, ingoi o scoppi o ti sfoghi con qualcuno”. La moglie, accorsa nella capitale per aiutarlo, sente il discorso e si innamora di nuovo di lui. Anche in lui qualcosa cambia. Chiude definitivamente con l’amante.

Dopo vicende alterne, un tradimento di lei, la tragica storia dell’aborto del loro primo figlio, il riavvicinamento fra i due instaurando di nuovo il dialogo che avevano perso, il matrimonio finalmente celebrato nella vecchia fonderia abbandonata di Reggio, un grave lutto e la perdita del lavoro, Riko riuscirà a ritrovare la spinta ad andare avanti e a far la guerra all’insoddisfazione e alla lamentela sterile.

Devo dire che Ligabue mi ha, per una volta, stupito. Capiamoci, è sempre Ligabue, le scene di raccordo con la musica sotto (o quella di altri, pur se bella come Song to the Siren) hanno un che di molto fastidioso, l’amico guru ha il destino scontatamente segnato (una costante di tutti i film del cantante, c’è da chiedersi se ciò non risalga ad un episodio autobiografico) e la sceneggiatura è costellata di cose assurde. Ad esempio, la sequenza nella quale Accorsi salta per magia in cima al corteo: dovrei rivederla per capirne bene la dinamica. Kasia Smutniak poi racconta a un’amica che, dopo aver perso un figlio, l’ostetrica, per una qualche strana tortura psicologica, ha fatto tenere a lei e ad Accorsi il cadavere del bambino nato morto in braccio. Roba da denuncia.

Però c’è un qualcosa di propositivo in questo film che non posso non apprezzare. In tutta la sua semplicità e la sua naiveté tecnico-diegetica, Made in Italy almeno prova a scrostare tutta la retorica pesante (e per niente progressista) che vede nell’Italia una terra ontologicamente marcia e nell’italiano qualcuno di ontologicamente stupido. Al contempo, nel finale a Francoforte, si tenta anche di scrostare i discorsi estremi nazionalistici. C’è una dimensione di pace che questo film (e l’uomo medio che descrive?) sembra rincorrere, sicuramente più convincente delle pretese sociologiche pontificanti di altre opere filmiche superpremiate. Ligabue peraltro, affermando l’ovvio (ma ogni tanto ce n’è bisogno) non nega una verità che dall’inizio degli anni Novanta è quasi un tabù: la colpa delle insoddisfazioni dell’uomo medio, la ragione per cui egli diventa cattivo e disumano, sta nella società, nei mezzi di produzione, nel lavoro, nel mondo in cui è organizzato, nei pochi soldi, nel poco tempo riservato all’amore, nel neocapitalismo, nei licenziamenti a man bassa ma soprattutto nella routine. Almeno, nel film c’è un gruppo di amici solido che si difende dalla crisi dell’umano – a tratti sembra il solo appiglio e di questi tempi non è cosa scontata. Il personaggio della Smutniak poi cerca in ogni modo di dialogare col muto macho Accorsi e fa bene- non c’è un’altra via per uscire dalle crisi relazionali. Lo scambio di battute fra i due operai licenziati depressi poi è sconfortante. “Si fa un po’ di confusione”, dice uno, “giorno…notte” mentre Accorsi risponde: “Te come fai a far venir sera?”. Alienazione. Una parola che sembra desueta, sembra rifiorire dalle lotte degli anni Settanta. Eppure è qua fra noi ed è allarmante quando a coglierla non è qualche intellettuale in vena di puntare il dito ma Ligabue (che descrive Riko come se stesso se non fosse diventato cantante). Il cantante, di nuovo dicendo l’ovvio, coglie anche la prospettiva dell’emigrante che riesce a vedere il buono del paese che ha dovuto lasciare. E a quel buono desidera tornare.

Made in Italy, tirando le fila, è come il discorso di un ipotetico zio che è stato giovane negli anni Ottanta e fa l’operaio, che magari in mezzo a tanta gente che parla a vanvera alzando barriere fra esseri umani, riesce a formulare dei pensieri banali ma necessari.

SCHEDA TECNICA
Made In Italy (Italia 2018) – REGIA: Luciano Ligabue. SCENEGGIATURA: Luciano Ligabue. FOTOGRAFIA: Marco Bassano. MONTAGGIO: Giogiò Franchini. MUSICA: Luciano Ligabue. CAST: Stefano Accorsi, Kasia Smutniak, Ettore Nicoletti, Flavio Maria Sciarappa. GENERE: Drammatico. DURATA: 98′

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