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Le molte facce di Bob Dylan
Quello di Todd Haynes è un cinema che ama decostruire generi preesistenti ormai consolidati nelle loro strutture canoniche, ricostruendoli in forme nuove e personali pur se rispettose della tradizione. Così è stato ad esempio per il remake di Secondo amore di Douglas Sirk (Lontano dal Paradiso, 2002) o l’adattamento nel 2011 di Mildred Pierce di James M. Cain già portato sullo schermo da Michael Curtiz nel 1945. Lo stesso metodo è applicato a Io non sono qui (2007), ispirato “alle canzoni e alle molte vite di Bob Dylan”.
A cavallo tra il mockumentary e il film narrativo, il regista si scosta dal genere biografico, seguendo invece una linea decisamente più originale, suddividendo il racconto in sette periodi cruciali della carriera del cantautore americano. In ogni segmento il protagonista cambia nome – legato a personaggi delle sue canzoni o a riferimenti essenziali nella sua formazione – e fisionomia, interpretato com’è da sette attori diversi. Da Arthur Rimbaud (Ben Whishaw), Woody Gurthie (Marcus Carl Franklin) fino a Billy the Kid (Richard Gere), la pellicola spezzetta, alterna e rielabora il magma-Bob Dylan, la sua complessa personalità e la continua evoluzione artistica che hanno caratterizzato la sua opera, capace – da un disco all’altro – di spiazzare anche l’ammiratore più convinto. Confrontarsi con l’autore di Blowin’ in The Wind e Like a Rolling Stone, pare dire Haynes, è come rapportarsi a figure diverse se non addirittura opposte, quasi fossero persone differenti.
L’originalità dell’intento però non riesce a concretizzarsi appieno nella forma. Macchinoso nella costruzione, il film si fa operazione celebrativa fine a se stessa che, se può affascinare nella sua concezione, nulla aggiunge a quanto già noto sia sull’autore di Duluth che sulla sua carriera. Insomma una giustapposizione di momenti topici nella sua vita pubblica che le scelte stilistiche un po’ di maniera appesantiscono senza dare alla pellicola una direzione netta, espressione di una posizione precisa in merito. Nel raccontare quel che è Dylan, Haynes ad esempio ne tralascia l’ultima e meno ispirata produzione nonché la discussa partecipazione alla campagna promozionale di una nota marca di intimo cui il musicista ha ceduto la sua Love Sick. Uno sguardo nostalgico a un passato che non è più, verso cui è esclusa ogni critica, come se non se ne volesse scalfire, ma solo ingenuamente tutelare il mito ormai irrimediabilmente superato.