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Da Venezia 73 Alessandro Guatti scrive di I Called Him Morgan, documentario di Kasper Collin dedicato al celebre jazzista Lee Morgan
“Play it again, Morgan”
La voce di Helen si sprigiona da un’audiocassetta. Un mese prima che morisse, il docente e conduttore radio Larry Reni Thomas l’ha intervistata e ora quella testimonianza del febbraio 1996 costituisce l’ossatura base di I Called Him Morgan, opera seconda assai interessante del documentarista Kasper Collin. Dopo My name is Albert Ayler, dove raccontava del free jazz del sassofonista americano, il regista islandese sceglie nuovamente un tema musicale come perno della sua opera e racconta la vita e la morte di Lee Morgan, trombettista prodigio stroncato a soli 33 anni da un colpo di pistola sparato proprio dalla moglie Helen.
Presentato fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia, il documentario di Collin ha riscosso grandissimo successo per la delicatezza con cui si avvicina alla vicenda che ha turbato il mondo musicale degli anni settanta (l’omicidio avvenne il 19 febbraio 1972, dopo un concerto che Morgan tenne allo Slugs di New York).
Il documentario mira a offrire un punto di vista interno, emotivamente coinvolto e coinvolgente, di una storia tragica. E ci riesce. Lei (di 13 anni più grande) lo aveva aiutato a rinascere dalla dipendenza di eroina; lui si invaghisce di un’altra ragazza; lei perde la testa e accecata dalla gelosia gli spara. I fatti sono semplici e lineari; non è così il documentario di Collins, che parte dalla fine della storia per poi tornare indietro e ripercorrerla cronologicamente con la voce di Helen a fare da guida. Le registrazioni video delle performance di Morgan si alternano a brani tratti dai suoi dischi, a materiale fotografico d’archivio, a immagini di una New York innevata e di locali notturni, e soprattutto alle testimonianze di colleghi e amici di Lee e Helen (il sassofonista Wayne Shorter, alcuni membri dei Jazz Messengers, …), componendo un puzzle molto sfaccettato che approfondisce sia la situazione personale del grande jazzista sia le dinamiche di coppia tra marito e moglie. Ne emerge un ritratto denso e intimo, che coniuga vita privata e vita professionale, facendo dell’esperienza di Morgan uno spunto per un discorso articolato sul tema della fama e del successo, ma anche una riflessione sul bisogno che le persone hanno l’una dell’altra, sul potere salvifico dell’amore nonché su eventuali risvolti negativi che la passione può avere. È proprio la passione il tema centrale del film: quella per la musica e quella amorosa.
Il racconto di Helen è come una catarsi: ripercorrendo oralmente la vicenda, la donna cerca forse di venire a patti con le proprie azioni, di offrire una spiegazione non richiesta, di rinascere da un dolore e una confusione abbaglianti ed assordanti. Helen ha espiato le sue colpe prima in carcere e poi diventando un’assidua frequentatrice della chiesa metodista per aiutare i bisognosi. Ma nel cuore dello spettatore resta quell’abbraccio con l’amico, dopo anni, che fa praticamente evaporare l’odio, lo shock e lo scoramento degli amici e colleghi di Morgan.
SCHEDA TECNICA
I Called Him Morgan (Svezia/USA, 2016) – REGIA: Kasper Collin. SCENEGGIATURA: Kasper Collin. FOTOGRAFIA: Erik Vallsten, Bradford Young. MONTAGGIO: Kasper Collin, Eva Hillström, Dino Jonsäter , Hanna Lejonqvist. MUSICHE: Lee Morgan, Jazz Messengers. CAST: Larry Reni Thomas, Wayne Shorter, Billy Harper, Jymie Merritt, Bennie Maupin. GENERE: Documentario. DURATA: 89’.
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