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Federica Marcucci su Sinatra: All or Nothing at All di Alex Gibney, documentario alla scoperta della complessa personalità del noto vocalist italoamericano
Yes, it was his way
Ol’ Blue Eyes. The Chairman of the Board. The Voice. Mentre il pubblico cercava di racchiudere la sua essenza con evocative etichette, Frank Sinatra era già una leggenda vivente. Una carriera lunga sei decadi, costellata da successi senza paragoni ma anche da baratri bui, per una personalità – o meglio, un personaggio – le cui vicende artistiche e personali si intrecciano e si fondono tra realtà, contraddizione e aneddoto consacrandolo definitivamente al mito. Dalle luci della Strip di Las Vegas che si abbassarono per rendergli omaggio il giorno della sua morte, avvenuta il 14 maggio 1998, al getto d’acqua ghiacciata che lo salvò appena nato, in un giorno di dicembre del 1915, la vita di Sinatra è stata un meraviglioso show senza fine.
Merito di una consapevolezza con cui pochi artisti hanno avuto il coraggio di confrontarsi (basti pensare a David Bowie), ma che nel caso di Sinatra resta ancora qualche cosa di unico nel suo genere. A differenza di molti altri performer della sua generazione, Sinatra, e con lui il suo personaggio, il suo ego, la sua voce, è ancora straordinariamente presente nell’immaginario contemporaneo. E non solo tra gli over 50.
Merito della sua inconfondibile voce da crooner, con cui ha “sussurato” praticamente tutto l’American Songbook, di una ricercatezza artistica che ha saputo andare ben oltre la bidimensionale figura di cantante pop che gli avevano cucito addosso negli anni ’40. Sinatra era un performer, un intrattenitore, in grado di ritagliarsi parti ad hoc nel cinema così come sul palcoscenico o in sala di registrazione. Basti pensare alle sue incursioni nel mondo jazz, con i pezzi incisi insieme a Count Basie, o ai primi prototipi di concept album, come In The Wee Small Hours, prima che l’idea stessa di concept album si affermasse effettivamente. Di qualunque cosa si trattasse, Sinatra la faceva my way, a modo suo.
Sinatra: All or Nothing at All di Alex Gibney, uscito nel 2015 anno in cui ricorreva il centenario della nascita di Francis Albert Sinatra, prende proprio le mosse da quest’idea. Attraverso interviste di amici, parenti, collaboratori, fan celebri e prezioso materiale d’archivio, Gibney indaga per scoprire i mille volti della leggenda, e soprattutto il volto dell’uomo dietro la leggenda. Un uomo molto diverso da quello che faceva impazzire le bobby soxers al Paramount Theatre di New York, che girava mezzo mondo in tournée, ma anche da quello che cantava le sue celebri saloon songs nella fumosa Copa Room del Sands di Las Vegas.
La narrazione di Sinatra: All or Nothing at All parte da un evento traumatico, il famoso Retirement Concert del 1971, un incipit che è allo stesso tempo continuità e rottura. Dopo il suo annuncio ufficiale di voler abbandonare la carriera, evidentemente Sinatra non seppe resistere al fascino di un’esistenza votata all’entertainment e cantò in pubblico fino al 1996. Tuttavia, come fa notare anche Gibney, il concerto di addio del 1971 è uno dei pochi eventi – se non l’unico- in cui un Sinatra, deciso più che mai a rinunciare alla propria carriera, abbia deciso di raccontare qualcosa di sé mettendo a punto una scaletta che fosse una sorta di storia della sua vita e della sua carriera.
Così le canzoni scelte da Sinatra stesso per quel 13 giugno 1971, diventano portatrici di significati molteplici che, se da una parte sono strettamente connesse con le vicende personali del performer, dall’altra raccontano anche più di mezzo secolo di musica statunitense. Un percorso che si interseca in direzioni diverse, cercando di raccontare pregi, difetti di una memorabile voce. La Voce.
Dagli esordi insieme alla band di Harry James, con la prima registrazione ufficiale All or Nothing at All, passando al successo con un’altra band, quella di Tommy Dorsey, prima di intraprendere la carriera solista, guardando a un certo tipo di tradizione (basti pensare a un pezzo come Ol’ Man River) ma seguendo sempre una linea tutta propria, come recita la sua That’s Life. Personalità oltremodo complessa, Sinatra nascondeva anche un animo particolarmente inquieto. Una sorta di facciata oscura in cui lui “Era il poeta di corte della malinconia”, come si dice nel documentario di Gibney, e che forse è stato possibile scorgere soltanto in una stanza piena di fumo e dalle luci soffuse. L’atmosfera perfetta per le sue amatissime saloon songs, quella che, per sua ammissione, gli era anche più congeniale. La stessa con cui gli piaceva congedare il suo pubblico accompagnato dalla sua colonna sonora, Angel Eyes. L’addio perfetto, oggi come allora. “Excuse me while I disappear.”
SCHEDA TECNICA
Sinatra: All or Nothing at All (Id., USA, 2015) – REGIA: Alex Gibney. SCENEGGIATURA: Alex Gibney. FOTOGRAFIA: Antonio Rossi, Samuel Painter. MONTAGGIO: Samuel D. Pollard, Ben Sozanski, Anoosh Tertzakian. MUSICHE: Frank Sinatra, vari. CAST: Nancy Sinatra, Nancy Barbato, Tina Sinatra, Frank Sinatra Jr., Charles Aznavour, Tony Bennett. GENERE: Documentario. DURATA: 244’. Diponibile su Netflix dal 1 giugno 2016
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