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Alessandro Guatti su Mommy di Xavier Dolan, espressione di una messa in scena sempre più consapevole, giocata qui soprattutto sul sonoro
In onda martedì 21 su RSI LA 1, ore 22.40
Energia incontenibile in stile pop
La potenza espressiva di Xavier Dolan è ormai indiscussa. Film dopo film, il regista canadese attua una ricerca formale sempre più interessante che si manifesta con un sapiente uso di ogni elemento cinematografico: dalla fotografia al montaggio, dai formati dell’immagine alla colonna sonora.
In Mommy (vincitore del Premio della giuria al festival di Cannes 2014, ex-æquo con Adieu au langage di Jean-Luc Godard) l’importanza del sonoro emerge in modo assai marcato. L’attenzione riservata all’aspetto acustico permette una descrizione aggiuntiva di situazioni, temi e personaggi, che sono così definiti non soltanto attraverso una fotografia mirabile ma anche tramite il contesto sonoro e rumoristico. È significativo che la storia inizi con uno schianto, un incidente che comporta un forzato cambio di rotta (letterale e metaforico), sottolineato anche dal punto di vista sonoro. Altri segnali di questo tipo si possono rilevare lungo tutto il film: il rumore che produce il mazzo di chiavi di Die, che sbattono ripetutamente sul tavolo quando firma le dimissioni del figlio Steve dal centro di correzione, o il continuo picchiettare della penna che la donna tiene in mano mentre cerca di ottenere al telefono un lavoro come traduttrice; tutti segni della confusione esistenziale in cui la madre di Steve sta vivendo.
Pur presentando brani composti ad hoc da Eduardo Noya e pezzi strumentali come Childhood di Craig Armstrong o il concerto di Vivaldi op. 8 n. 2 L’estate, la colonna sonora di Mommy è costituita prevalentemente da musica pop degli anni Novanta. Attraverso questi brani, molto noti specialmente a un pubblico che ha vissuto l’adolescenza in quegli anni, Dolan riesce a creare un’empatia con il protagonista, perché riconduce quasi sempre tale musica a una fonte sonora diegetica che riproduce la compilation che il padre di Steve aveva creato per il loro viaggio in California, poco prima di morire. Le canzoni che sentiamo – da White Flag di Dido a Blue (Da Ba Dee) degli Eiffel 65, passando per On ne change pas di Celine Dion – costituiscono dunque la colonna sonora della vita interiore di Steve, spesso facendosi portavoce dei suoi stati d’animo. E questa empatia viene formalizzata in modo straordinario da Dolan anche a livello visivo, attraverso un’innovativa ricerca sui formati.
Quasi tutto il film è girato con un rapporto interno all’inquadratura di 1:1. L’immagine è un quadrato all’interno del quale i personaggi stanno stretti, sono prevalentemente inquadrati da soli (in particolare Die e Kyla) e rendono talvolta persino difficile all’operatore seguirli e mantenerli in campo. Questo è vero soprattutto per quanto riguarda Steve, la cui energia non riesce ad essere contenuta né da istituti di correzione o camicie di forza all’interno della storia, né, appunto, dal discorso filmico stesso. Vi sono tuttavia due momenti in cui l’immagine si allarga fino a raggiungere un formato di 1,85:1, a simboleggiare la (ricerca di) libertà dei personaggi. Il primo è la corsa in longboard in cui Steve, sulle note di Wonderwall degli Oasis, allarga le braccia con gesto liberatorio spingendo i bordi dell’inquadratura verso il nuovo formato. Il secondo è una rappresentazione del sogno di Die in cui vediamo il futuro irrealizzabile di Steve, sequenza per la quale la musica ha avuto un ruolo primario anche nel processo creativo: è stato infatti l’ascolto di Experience di Ludovico Einaudi a ispirare al regista la scrittura di una sequenza che avrebbe riguardato “una donna e la vita che non avrebbe mai avuto”.
Bisogna però sottolineare che nonostante questa empatia tra noi e i personaggi, Dolan inserisce una sorta di frattura tra lo spettatore e il mondo narrato nel film: alcuni filtri, come il cambio di formato dell’immagine, che sospingono i personaggi verso di noi per poi rimandarli lontano. Anche la musica agisce in questo senso. Se consideriamo sequenze come quella in cui Steve corre con la longboard e con il carrello del supermercato, possiamo notare come la canzone dei Counting Crows Colorblind sembri ad un primo sguardo provenire dal suo lettore attraverso le cuffie che indossa, ma notando il labiale e i movimenti di danza del ragazzo appare evidente come la musica che lui sta ascoltando non sia la stessa che sentiamo noi. Soprattutto, la musica è antifrastica rispetto alla situazione visivamente descritta, perché mentre Steve corre, urla, dimena il carrello del supermercato, la canzone è molto malinconica. Vi è dunque uno sfasamento tra diegetico ed extra-diegetico.
Tutto questo rende Dolan un regista radicalmente “pop”, perché si fa portatore di contenuti profondi rielaborati con criteri estetici che hanno come interlocutore soprattutto un pubblico giovane.