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Fenomeno cinematografico in sempre maggiore espansione, il film-concerto si presenta come una delle formule audiovisive più interessanti di questi ultimi anni in cui, con la diffusione di nuovi sistemi di fruizione filmica, la sala deve garantire la totale immesione nell’esperienza sensoriale collettiva, ancora eclusivo appannaggio del grande schermo.
Il nostro speciale estivo vuole offrire una chiave di lettura per un filone ancora poco approfondito, finora considerato solo gratificante appagamento del fan e non forma linguistica a sé stante. Dieci film, dieci recensioni per avviare un discorso, oramai più che necessario.
Monterey Pop: such a strange vibration
La sfavillante pellicola di Pennebaker, capostipite del rockumentary, è un esempio di cinema diretto con una freschezza quasi artigianale: libero da finalità commerciali, esprime la volontà di inglobare lo spettatore in un rituale sinestesico e resta una testimonianza indispensabile del clima culturale della Summer of love. “Be here now”: per Pennebaker l’importante non è tanto mettere al corrente dell’evento, quanto permettere di viverlo, toccarlo con mano. In un periodo in cui l’espansione della coscienza passa per l’espansione dei sensi, con Monterey Pop lo spettatore, reso soggetto cinestetico di una sorta di acid test, è chiamato ad esplorare una gamma di percezioni multisensoriali.
La scelta stilistica più eclatante è l’insistenza sui piani ravvicinati, di certo una conseguenza del formato scelto (il 16 mm) ma non solo: quei primi e primissimi piani al limite del dermatologico (dedicati tanto ai musicisti sul palco quanto al pubblico) conferiscono un aspetto di prossimità quasi tattile a molte inquadrature. Dal punto di vista degli effetti visivi la pellicola è certamente debitrice delle sperimentazioni sull’ampliamento della visione del New American Cinema Group e si fa portavoce del vasto catalogo fornito dalla ricerca psichedelica fino a quel momento: complice il gusto per un cromatismo squisitamente pop, si va dai lightshow più o meno liquidi firmati Headlights a sequenze dal montaggio serratissimo, dalle sovrapposizioni al puro stimolo luminoso delle dissolvenze al bianco ad effetto dreamachine.
Va da sé che il focus sensoriale è rappresentato dalla musica, che stupisce, rapisce e incanta. La selezione dei brani permette di abbracciare una varietà di performance spesso ai limiti della ricerca strumentale: basti pensare ai graffi blues di Janis Joplin, a Jimi Hendrix e alla sua stratocaster posseduta o all’ipnotica performance di Ravi Shankar e Alla Rakha.
E, come presa da meraviglia, la macchina da presa contempla la fonte sonora, sia essa una bocca che canta o uno strumento che spande musica.
Proprio il senso di meraviglia, che traspare dai modi delle riprese ed è dipinto sui volti del pubblico, getta luce sull’apporto culturale del film. Monterey Pop ha colto quella brevissima stagione di fiducia in cui una strana vibrazione attraversava gli Stati Uniti, da sempre sedotti dal mito della seconda possibilità: con il pretesto dell’esperienza lisergica si può ancora credere in una nuova percezione adamitica e si ha la sensazione di vedere il mondo per la prima volta.
SCHEDA TECNICA
Monterey Pop (Id., USA, 1969) – REGIA: D. A. Pennebaker. FOTOGRAFIA: Nick Doob, Barry Feinstein, Richard Leacock, Albert Maysles, Roger Murphy, D. A. Pennebaker. MONTAGGIO: Nina Schulman. MUSICHE: Scott McKenzie , The Mamas & the Papas, Canned Heat, Simon & Garfunkel, Jefferson Airplane, Janis Joplin, The Animals, Jimi Hendrix, The Who, Otis Redding, Ravi Shankar. CAST: The Mamas & the Papas, Canned Heat, Simon & Garfunkel, Jefferson Airplane. GENERE: Documentario. DURATA: 79′
https://www.youtube.com/watch?v=KlQKPFIb0FA&index=1&list=PLXnHWWdpL-Y46jGJrLtWfWWlaQXBzeV_M[:en]
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Monterey Pop: such a strange vibration
La sfavillante pellicola di Pennebaker, capostipite del rockumentary, è un esempio di cinema diretto con una freschezza quasi artigianale: libero da finalità commerciali, esprime la volontà di inglobare lo spettatore in un rituale sinestesico e resta una testimonianza indispensabile del clima culturale della Summer of Love.
“Be here now”: per Pennebaker l’importante non è tanto mettere al corrente dell’evento, quanto permettere di viverlo, toccarlo con mano. In un periodo in cui l’espansione della coscienza passa per l’espansione dei sensi, con Monterey Pop lo spettatore, reso soggetto cinestetico di una sorta di acid test, è chiamato ad esplorare una gamma di percezioni multisensoriali.
La scelta stilistica più eclatante è l’insistenza sui piani ravvicinati, di certo una conseguenza del formato scelto (il 16 mm) ma non solo: quei primi e primissimi piani al limite del dermatologico (dedicati tanto ai musicisti sul palco quanto al pubblico) conferiscono un aspetto di prossimità quasi tattile a molte inquadrature. Dal punto di vista degli effetti visivi la pellicola è certamente debitrice delle sperimentazioni sull’ampliamento della visione del New American Cinema Group e si fa portavoce del vasto catalogo fornito dalla ricerca psichedelica fino a quel momento: complice il gusto per un cromatismo squisitamente pop, si va dai lightshow più o meno liquidi firmati Headlights a sequenze dal montaggio serratissimo, dalle sovrapposizioni al puro stimolo luminoso delle dissolvenze al bianco ad effetto dreamachine.
Va da sé che il focus sensoriale è rappresentato dalla musica, che stupisce, rapisce e incanta. La selezione dei brani permette di abbracciare una varietà di performance spesso ai limiti della ricerca strumentale: basti pensare ai graffi blues di Janis Joplin, a Jimi Hendrix e alla sua stratocaster posseduta o all’ipnotica performance di Ravi Shankar e Alla Rakha.
E, come presa da meraviglia, la macchina da presa contempla la fonte sonora, sia essa una bocca che canta o uno strumento che spande musica.
Proprio il senso di meraviglia, che traspare dai modi delle riprese ed è dipinto sui volti del pubblico, getta luce sull’apporto culturale del film. Monterey Pop ha colto quella brevissima stagione di fiducia in cui una strana vibrazione attraversava gli Stati Uniti, da sempre sedotti dal mito della seconda possibilità: con il pretesto dell’esperienza lisergica si può ancora credere in una nuova percezione adamitica e si ha la sensazione di vedere il mondo per la prima volta.
SCHEDA TECNICA
Monterey Pop (id., USA, 1969) – REGIA: D. A. Pennebaker. FOTOGRAFIA: Nick Doob, Barry Feinstein, Richard Leacock, Albert Maysles, Roger Murphy, D. A. Pennebaker. MONTAGGIO: Nina Schulman. MUSICHE: Scott McKenzie , The Mamas & the Papas, Canned Heat, Simon & Garfunkel, Jefferson Airplane, Janis Joplin, The Animals, Jimi Hendrix, The Who, Otis Redding, Ravi Shankar. CAST: The Mamas & the Papas, Canned Heat, Simon & Garfunkel, Jefferson Airplane, Janis Joplin, The Animals, Jimi Hendrix, The Who, Otis Redding, Ravi Shankar. GENERE: Documentario. DURATA: 79′.
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