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Il coraggio di (non) cambiare
“Mostra a tutti loro chi sei, se ne hai il coraggio”.
C’è poco di originale nella storia di un fulvo ragazzo gay affidato alle non amorevoli cure di un college votato quasi unicamente al rugby: forse è questa mancanza di originalità il principale difetto di Handsome devil, terzo lungometraggio del regista irlandese John Butler.
La narrazione si sviluppa infatti per contrapposizioni quasi manichee tra buoni (pochi) e cattivi (molti), tra cultura e sport (!), tra musica e agonismo, dove alcuni di questi contrasti sono così stereotipati (come i personaggi) da risultare irrealistici, prevedibili, oppure – quando stravolgono le aspettative – addirittura deludenti.
Mentre il professore di letteratura Dan Sherry grida agli alunni-pecore di non usare la voce di qualcun altro per parlare di sé (come invece fa Ned nel suo tema copiando le parole da My perfect cousin degli Undertones), ci si aspetta che da un momento all’altro egli salga sulla cattedra a declamare poesie sulle orme del Robin Williams de L’attimo fuggente. E invece no: niente professor Keating, nessun cambiamento di vita operato dalla forza salvifica della poesia, niente “capitani” fuori dal campo di rugby. Solo un suo invito poco carismatico a fare squadra (questo sì, fuori dagli spogliatoi), mentre l‘allenatore omofobo sprona i suoi atleti a trasformarsi in soldati di un esercito.
Poiché l’argomento principale del film è l’omosessualità, nella gara allo stereotipo non potevano mancare l’omosessuale timido, introverso e vessato dai bulli della scuola, l’atleta gay belloccio represso e il professore con lo scheletro (cioè il compagno) nell’armadio.
Ad unire tutti – udite, udite! – sarà proprio la musica. Al suo ingresso nella camera di Ned, Conor viene infatti accolto dai versi di una canzone di David Bowie (Changes), affissi alla parete: And these children, that you spit on, / as they try to change their ways, / are immune to your consultations, / they’re quite aware of what / they are going through. I due compagni di stanza, separati all’inizio da un posticcio e simpatico “muro di Berlino” che crolla appena scoprono che a modo suo ognuno è diverso, si ritrovano a preparare per un concorso un duetto (Think for a minute degli Housemartins) sotto la guida del succitato professore, che condivide con loro la passione per la musica “vecchia” (The Blades, The Undertones), il fascino dei dischi in vinile e, ovviamente, la sofferenza per le proprie inesprimibili (?) inclinazioni personali.
Se il tema alla base della narrazione è di tutto rispetto (la difficile accettazione della propria e dell’altrui diversità), il problema sostanziale di Handsome devil è il linguaggio cinematografico: salvandosi parzialmente in corner grazie alla scelta di adottare un registro da commedia, il racconto in prima persona pronunciato da una voice-over troppo presente ottiene l’effetto di rendere poco fluida la narrazione che, oltretutto, s’interrompe saltuariamente con freeze-frame che a volte riescono nel loro intento comico ma che in fondo disturbano uno spettatore che voglia lasciarsi condurre dalle immagini.
Un simile linguaggio sarebbe pertinente in un film prodotto negli anni Ottanta o Novanta (anche per via delle sonorità e dei generi musicali che costituiscono la colonna sonora), ma oggi risulterebbe accettabile solo da un pubblico giovane che necessitasse di qualche escamotage tecnico per lasciarsi avvincere dallo scorrere del film. Eppure la sceneggiatura è troppo scontata, i personaggi troppo granitici, le contrapposizioni troppo rigide anche per degli adolescenti, oggi assai più smaliziati non solo per quanto riguarda la fruizione audiovisiva ma anche per i temi trattati. Forse qualcuno ha ancora bisogno di un film come questo per il proprio percorso di auto-accettazione, ma a chiunque abbia tale necessità Handsome devil (almeno in Italia) non parla purtroppo il linguaggio adatto.