[:it]
Il velo su Napoli: fra intimismo e mistero
Come giustamente scrive Mereghetti sul Corriere, parlando di Napoli velata: “Se c’è un tema che unifica i film di Ferzan Ozpetek è quello della ‘perdita’”. Perdere qualcosa, qualcuno o talvolta perdere se stessi.
Naturalmente una perdita non fine a se stessa, ma intesa come occasione, come percorso di indagine interiore, spesso come percorso di rinascita. Se bisogna indagare una perdita però, occorrono dei punti fermi: elementi che nella magmatica ricerca di senso, rappresentino luoghi di approdo certi, elementi a cui sorreggersi e grazie ai quali trovare la forza di riprendere il cammino. Nel mondo poetico di Ozpetek, certamente la musica rappresenta uno di questi luoghi sicuri.
Per il regista turco-romano, la mescolanza di sonorità e universi musicali differenti, ma che coesistono nella sua storia personale, hanno sempre rappresentato una grande ricchezza culturale e anche un modo viscerale e intimo per immettere qualcosa di sé, nelle storie che andava raccontando. Così, musiche turche, tango argentino, musica leggera italiana, si fondono e dialogano incessantemente in tutte le opere del regista, cucite insieme da brani originali di volta in volta scritti appositamente per i film.
Per questo suo ultimo lavoro, Ozpetek torna a collaborare con Pasquale Catalano col quale aveva già lavorato in Mine Vaganti, Magnifica Presenza e Allacciate le cinture. A lui il difficile compito, già svolto egregiamente nelle altre pellicole, di scrivere brani originali cucendo fra loro questi mondi sonori e calandoli in una Napoli misteriosa e straniante.
Esempio ideale, in questo senso, è l’interessante partitura che prende il titolo dal film, che lavora attorno ad un tema presentato dall’orchestra, ambiguamente diviso fra momenti di lirismo e altri di cupezza estrema. Non solo ampi respiri orchestrali, ma lavorando con l’elettronica, in una chiave minimale e proprio con l’intento di stranire lo spettatore, troviamo i due brani Obitorio e Stazione Toledo, insinuanti e ombrosi.
Nell’articolata ricerca musicale che il regista compie insieme a Catalano, nel tentativo di fondersi con una napoletanità ricca di fascino e mistero, troviamo Senza Voce una canzone di Enzo Gragnaniello, un brano di struggente bellezza cantato con voce graffiata da Pietra Montecorvino. Sempre di Gragnaniello, a chiudere idealmente il cerchio fra musica della tradizione napoletana e musica leggera pop, un altro brano di Enzo Gragnaniello, Vasame, cantata con una bella intensità da Arisa e usata anche come canzone di lancio per il film. Ipnotico e assolutamente in linea con la poliedrica e trasversale cultura musicale del regista, il brano Ghir Enta, della cantante algerina Souad Massi.
Concludendo, una interessante prova della capacità di Pasquale Catalano di abitare universi sonori sempre differenti, è la bellissima composizione che porta il nome della protagonista del film, Adriana, che pare quasi echeggiare, nelle sue sonorità sospese, alcune partiture di Joe Hisashi, il grande compositore giapponese.