Ode e requiem alla madre
Lavoro strabordante e stratificato, il Suspiria di Guadagnino guarda quello argentiano in superficie, ne coglie le coordinate narrative e ne stravolge lo spirito in un denso impasto in chiave femminile e femminista. Se il “maschile” appariva negato nel capolavoro del 1977, nel (non) remake è attraversato dalla crudele pietas della donna per un mondo morente e per un maschile ostracizzato nell’anima, piuttosto che respinto dalla scena.
Mai come in questo caso si è lontani dall’anarchica rappresentazione del sabba, e le streghe si collocano al di là del bene e del male, in una dimensione che unisce l’orgoglio e la vanità, la potenza ferina e la caparbia volontà di intrecciare il sodalizio in un corpo unico, come quello rappresentato nella danza Volk. Requiem e insieme ode al femminino sacro, come si intuisce dal sonoro tonante fatto di carne lacerata e giunture scricchiolanti, sussurri e grida.
“Morte a Videodrome. Gloria e vita alla nuova carne” diceva Max Renn nel cult cronenberghiano del 1983 e Guadagnino ripete il mantra dal 1977, anno in cui è ambientato il suo film nella Berlino divisa, preconizzando l’avvento di un nuovo corpo femminile, un golem sessualizzato pronto a squarciare cortine di ferro e a gelare cuori incapaci di dimenticare gli orrori della guerra. I toni cupi di una città spezzata e fatiscente allontanano le pennellate accese di Luciano Tovoli e la riscrittura di Guadagnino si spinge nelle profondità della psiche femminile, attraverso i corpi sinuosi danzanti e l’ipnotica colonna sonora realizzata da Thom Yorke. Una tessitura musicale che è elucubrazione fantasmatica – il movimento isolato in Suspirium, voce, piano e flauto, a evocare una danza convulsa – o ipnosi demonica, come nella sulfurea Volk, che esplode in un crescendo di frastuoni ossessivi e mesti, nell’irrequieta litania di Has Ended, nell’attrazione mistica di Sabbath incantation o nella spettrale The Hooks, fino a giungere ad un epilogo stridente e malinconico che prelude alla rinascita di una nuova madre manipolatrice delle storie individuali (e della Storia).
La melodia si insinua sottopelle per poi squarciare il velo della realtà rivoluzionaria e giungere alla trascendenza magica. Un coup de foudre che non è vertigine ma il passo (di danza) precedente alla caduta. Al regista, infatti, interessa stare dentro al quadro nebuloso di un hotel infetto circondato dal fuoco incrociato di Berlino, in modo che la musica di Yorke materializzi l’assedio e preannunci l’assalto, riempiendo lo spazio doloroso con un lirismo musicale che evoca un grigiore teutonico. La colonna sonora è un incantesimo, una suggestione partorita da influenze progressive ed elettroniche, un percorso circolare che ha il sapore di un’incandescenza visionaria.