Born to Be Wild
Penultimo film di Stanley Kubrick, Full Metal Jacket resta a oggi uno dei film più efficaci e incisivi sulle conseguenze della formazione militare sui soldati, sulla crisi identitaria che ne scaturisce e porta allo smarrimento del proprio io, facendone bestie tra le bestie, killer spietati assetati del sangue nemico.
Elemento fondamentale della pellicola – così come in tutta la produzione kubrickiana – è la componente sonora, elemento apparentemente secondario ma che nasconde un ruolo essenziale nella veicolazione di precisi significati e contenuti, in questo caso il processo di straniamento dei militari al fronte. Esaminando la prima parte del film (l’addestramento delle reclute nel campo di Parris Island), risulta evidente la quasi totale assenza di commento sonoro, eccezion fatta per le canzonacce sconce del Sergente maggiore Hartman che cadenzano le marce, così come il tamburo che accompagna la breve sequenza di lotta tra marines (con un chiaro rimando all’omologa scena in Barry Lyndon). Dopo l’apertura con la rasatura delle nuove leve sulla note della struggente Hello Vietnam di Johnny Wright (“Kiss me goodbye and write me while I’m gone/ Goodbye my sweetheart, Hello Vietnam”), canzone pacifista che qui esprime la fine dell’innocenza dei giovani destinati in breve a divenire fresca carne da macello sul campo di battaglia, l’assenza di musica è come se accentuasse l’isolamento mentale e psicologico dei ragazzi, rinchiusi nel recinto del loro campo e lì trasformati in macchine da guerra. Non è un caso dunque che la tetra composizione per sintetizzatore sia associata al lento declino psichico di Palla di lardo, un tracollo simile a quello di Jack Torrance in Shining, la cui crescente follia era sottolineata anche lì da strumentazione elettronica.
Il netto passaggio alla dura realtà della guerra sulle note di These Boots Are Made for Walkin’ di Nancy Sinatra, mentre Joker e Rafterman contrattano il prezzo con la prostituta vietnamita (a simboleggiare anche l’arroganza e la prepotenza americana sui locali), viene a marcare il drastico cambio di passo del film e l’atteggiamento degli arruolati; una distopia espressa efficacemente dal look di Joker: l’elmetto con su scritto “born to kill” e la spilla con il simbolo della pace. Freddezza, distacco empatico e brutalità diventano le costanti emotive dei singoli personaggi, pronti a uccidere per non essere uccisi, mossi dal solo istinto di sopravvivenza. Il caustico cinismo che li contraddistingue è espresso musicalmente dalle scanzonate Wolly Bully (Sam the Sham & the Pharaons), Surfin’ Bird (The Trashmen) e Chapel of Love (The Dixie Cups) che accompagnano le crude scene di quotidianità tra morti, violenze e vitali fantasie erotiche.
Se nuovamente i sintetizzatori segnano l’abbrutimento dei protagonisti (l’omicidio della cecchino vietcong) è il motivetto televisivo Mickey Mouse Club March a marcare il drastico distacco dalla realtà pervenuto nei ragazzi, ormai trasformati in selvaggi children of nature non dissimili dai Drughi di Arancia meccanica. “I look inside myself and see my heart is black/ It’s not easy facin’ up, when your whole world is black” cantano gli Stones nella celebre Paint in Black sui titoli di coda dopo lo stacco al nero: lo smarrimento è totale, non resta che prenderne coscienza.