Smisurata preghiera
L’abbiamo sentita praticamente tutti, anche se qualcuno non l’ha conosciuta nella versione cantata dal suo autore: Hallelujah, la canzone scritta da Leonard Cohen nel 1984, può essere giunta alle nostre orecchie nell’interpretazione di Bob Dylan o in quella di John Cale (ex leader dei Velvet Underground), di Jeff Buckley o di Bono, di Rufus Wainwright (la cui versione è inclusa nella colonna sonora di Shrek) o anche di Brandi Carlile. Sono infatti decine i cantanti che ne hanno realizzato una cover, in studio oppure live.
Daniel Geller e Dayna Goldfine rendono questa canzone il centro di un documentario sul suo compositore, mantenendo sempre come baricentro dell’indagine il rapporto del cantautore canadese con la propria arte e il significato che questa ha avuto nella formazione della sua personalità. Gli accadimenti della biografia di Cohen sono dunque sempre messi in relazione con gli effetti che ebbero sul suo percorso artistico e sulla sua produzione musicale. È interessante, anche se alla lunga penalizzante per la reiterazione che ne consegue, la scelta di usare Hallelujah come una lente di ingrandimento per mettere in luce il lato spirituale del musicista e della sua arte. Non si sottintenda qui un’accezione puramente religiosa del termine: la canzone è l’esempio lampante di come nella musica di Cohen una potente tensione all’elevazione spirituale coesista con una notevole intensità erotica. Per Hallelujah Cohen scrisse oltre 80 strofe, alcune più religiose (presenti soprattutto nella versione incisa all’interno dell’album Various Positions), altre decisamente più erotiche, che egli eseguiva in concerto. Da qui emerge la capacità del compositore di parlare a ogni tipo di pubblico. È innegabile che la spiritualità abbia avuto un’importanza capitale nella vita di Cohen: egli ha trascorso anni in un monastero buddhista a praticare la meditazione per rientrare in contatto con il proprio sé, in un momento di crisi personale ed artistica dal quale è uscito con un’energia nuova che gli ha permesso di tornare a calcare le scene musicali di tutto il mondo fino al 2013, all’età di 79 anni. Soffermandosi sulla meticolosità del musicista nel momento compositivo (Cohen impiegò diversi anni a scrivere Hallelujah), i registi costruiscono un ritratto approfondito di un artista che è arrivato al successo grazie all’impegno e alla perseveranza, non soltanto per la “grazia” di una golden voice. Purtroppo l’agiografia non sempre è evitata; tuttavia è controbilanciata da interviste ad amici e colleghi di Leonard che ne sottolineano anche i tratti spigolosi del carattere o certi inaspettati comportamenti negativi.
Se l’idea, come suggerisce il titolo, di usare una canzone per traghettare lo spettatore in un viaggio nella musica e nella biografia dell’autore è originale e interessante, essa tuttavia si infrange contro lo scoglio della ripetitività e fatica ad arginare la sensazione che ogni passaggio del documentario sia costruito per ribadire uno scopo narrativo fissato ab origine. Ciononostante, la preziosità di certi documenti inediti provenienti anche dal Cohen Trust rende questo film un elemento prezioso per i fan del cantautore e un buon punto di partenza per chi desideri avvicinarsi alla sua musica.