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See You Sound Festival 2018, Torino 26 gennaio-4 febbraio
Il film perduto su Leonard Cohen
Sulla storia di Bird on a Wire Tony Palmer potrebbe girare un altro film. Filmato nel 1972 durante il tour europeo di Leonard Cohen, dopo la prima versione il documentario fu completamente rimontato, perché all’avvocato e al manager di Cohen, Marty Machat, era sembrato troppo provocatorio e a Cohen “troppo vero”. La nuova versione fu proiettata a Londra nel 1974, ma il film non venne distribuito né trasmesso e sparì nel nulla per più di trent’anni, diventando un titolo di culto tra i fan: il film perduto su Leonard Cohen.
Nel 2009 Palmer riceve dal figlio di Machat un regalo inatteso: decine e decine di rulli di pellicola ritrovati in scatole con la scritta “Bird on a Wire”. Il montato originale è andato perso, ma una di quelle scatole custodisce una preziosa sorpresa: la colonna sonora, che Palmer può utilizzare come base per ricostruire il film. Dedica un anno alla ricomposizione di un complicatissimo puzzle partendo da 3.000 frammenti di pellicola, ormai rovinati e fragilissimi, che vengono delicatamente ripuliti a mano, restaurati digitalmente e poi montati. Nel 2010 il film, che Palmer dice coincidere per circa il 90% con la versione originale, vede la luce sotto forma di DVD, per poi uscire finalmente nelle sale di tutto il mondo a partire dal 2017.
Bird on a Wire è un documentario atipico rispetto ai film-concerto dell’epoca. Non vuole essere solo una testimonianza ma un ritratto vivo, non vuole esibire l’artista ma mettere a nudo la persona, e coglie il momento ideale per farlo. Leonard Cohen parte per il tour del 1972 senza più un contratto con la casa discografica. Viaggia con una band di cinque elementi e una piccola crew, in tutto una ventina di persone e nessun PR dell’etichetta a porre limiti e chiudere porte. In questo contesto Palmer ha la possibilità di essere a stretto contatto con lui giorno e notte, sul palco e nel backstage, sul tour bus, in piscina, persino nelle docce.
L’obiettivo registra ossessivamente ogni istante, documenta i momenti salienti e tumultuosi di quel tormentato tour con la stessa attenzione con cui si sofferma a contemplare il viso di Cohen nei lunghi primissimi piani che costellano la pellicola.
Vediamo Cohen calmare i ragazzi del pubblico durante gli scontri con la sicurezza a Tel Aviv, rimborsare due fan dopo i problemi tecnici del concerto in Germania, eludere con gentilezza certe domande dei giornalisti, declinare con imbarazzo e tenerezza le avances di una fan a fine concerto. Lo vediamo abbandonare il palco quando sente che non sta trasmettendo quanto dovrebbe al suo pubblico, tornare e poi abbandonarlo di nuovo, in lacrime, perché sopraffatto dalle emozioni. Ci viene restituita l’immagine di una persona in conflitto tra l’inseguimento della coerenza interiore e il timore di deludere o mancare di rispetto agli altri, divisa tra il senso del dovere e la condanna del dover fare, un uomo apertamente fragile, spesso succube della sua sensibilità.
E poi ci sono le canzoni. Immerse nell’umanità di questo ritratto risuonano ancora più dolci le esecuzioni delle eterne Suzanne, Sisters of Mercy, One of Us Cannot Be Wrong, Famous Blue Raincoat, Chelsea Hotel #2. Sulle note gentili della sua chitarra e della sua voce perfino una canzone che parla della morte come Who By Fire ha l’effetto di una carezza, mentre sono schiaffi violenti le immagini di morte della guerra del Vietnam inserite nel montaggio nella seconda parte del film, da un lato la poesia e dall’altro la mostruosità di cui è capace l’uomo, fil rouge, questo, di tutto il cinema di Tony Palmer. E ancora l’inquietudine di Avalanche, l’ironia delle canzoni improvvisate su ogni palco (tra cui una rivolta a noi, spettatori del futuro) e la commovente chiusura con il brano che dà il titolo al film: “Like a bird on a wire / Like a drunk in a midnight choir / I have tried in my way to be free”.