[:it]
Gruppo di famiglia in un inferno
Verrebbe voglia di intitolare così questo ultimo film di Muccino. Un inferno tutto domestico, nel quale tutti i rancori, i dissidi e le incomprensioni profonde sono tenute sopite e lasciate a giacere sotto la cenere degli anni e dell’abitudine. Lì dove la coralità dei Perfetti sconosciuti di Genovesi si fermava, essenzialmente per mancanza di coraggio, arriva Muccino e il suo debordante eppure controllatissimo intreccio di vite allo sbando.
Le nozze d’oro dei nonni Alba e Pietro, che vogliono festeggiare con la famiglia al gran completo, costringe però figli, nipoti e cugini ad una riunione familiare inaspettata e in fin dei conti, per nulla desiderata. I due anziani sposi vivono in una grande casa su un isola e, come nella migliore tradizione teatrale classica, arrivano degli eventi esterni (nello specifico, un mare in tempesta che impedisce ai traghetti di muoversi) a blindare i personaggi, all’interno di una immutabile unità di tempo e di luogo, dentro la quale far deflagrare tutte le loro incomprensioni e i loro rancori più profondi.
Muccino, dopo le esperienze americane e dopo il precedente lavoro non del tutto riuscito (L’estate addosso), torna al suo cinema, quello che conosce meglio e in cui si muove maggiormente a suo agio, e riesce così ad orchestrare un complesso mosaico di personaggi e personalità, lasciando a tutti lo spazio per esistere e lasciarsi conoscere.
Con una coerenza e una riconoscibilità che vive a metà strada fra una sorta di coazione a ripetere e un “citarsi addosso”, tipico di un certo modo di essere autore, Muccino costruisce qui una partitura in cui chiunque abbia apprezzato i precedenti film “corali” del regista (Ricordati di me, L’ultimo bacio, Baciami ancora, ma anche in un certo senso, Come te nessuno mai), non potrà che sentirsi a casa.
Tuttavia, complice una sceneggiatura più compatta e risolta e una orchestrazione degli spazi e dei movimenti (degli attori e della macchina da presa) studiatissima e magnificamente gestita, questo risulta essere, senza timore di smentita, il suo film più riuscito.
Qualche differenza con i suoi precedenti lavori però c’è e vale la pena metterla in risalto.
Prima fra tutte, le musiche. La partitura orchestrale che regge il film, e ne contrappunta i momenti salienti scandendone l’incedere, questa volta è affidata a Nicola Piovani che compie un bel lavoro, non dissimile dal quello del sodale Buonvino (collaboratore di Muccino in ben sei pellicole), ma con punte di maggiore lirismo. Tuttavia la vera novità risiede nelle canzoni cantate durante il film dai personaggi, le quali, sopratutto in tre momenti precisi, scandiscono altrettanti cambi di rotta fondamentali nella narrazione.
Il primo, noto a tutti perché mostrato fin dal trailer, è Bella senz’anima di Cocciante, cantata dall’intero cast con un grande trasporto, fra sguardi di intesa e un impeto aggregativo che sembra per un attimo riuscire a far superare ogni dissidio. Musica che unisce, che quasi catarticamente libera da ogni tensione e ricorda a tutti la gioia di essere lì insieme. In un secondo momento, Sara sta cantando a suo marito fedifrago Diego A te di Jovanotti, nel vano tentativo di creare un momento di romanticismo, grazie al quale rafforzare la sua idea di famiglia unita e innamorata. Ad un certo punto lui la interrompe con una questione che la irrita fortemente, ma mentre lui ancora sta parlando, lei riprende a cantare la canzone: lo sforzo che fa per tornare a cantare pur se visibilmente turbata, dice del personaggio e dell’incomunicabilità fra i due, molto più di tutti i dialoghi del film messi assieme. Un terzo momento cardine è quando il gruppo, spinto dalla verve di Riccardo, uno straordinario Gianmarco Tognazzi, sempre al pianoforte, intona Dieci ragazze per me di Battisti. Il canto di Riccardo non è più lo stesso della canzone di Cocciante, si è fatto più rabbioso, quasi disperato. La sua allegria, non è la stessa dell’inizio del film: nessuno pare volersi interessare ai suoi problemi finanziari, perché tutti delusi dai suoi comportamenti passati, ma appena si mette al piano, quasi fosse un un saltimbanco qualsiasi, ecco che tutti gli vengono incontro per divertirsi. Un omaggio questo, al tristissimo e indimenticabile personaggio che Tognazzi padre interpreta, in una scena di Io la conoscevo bene, il capolavoro di Pietrangeli del 1965.
Nel frullatore emotivo di Muccino restano invischiati più o meno tutti i personaggi, che escono abbastanza malconci da questa pur breve sosta forzata in famiglia e molti equilibri, sul finale, saranno ormai irrimediabilmente saltati. Si salva forse solo la coppia di Beatrice e Sandro, lui malato di Alzheimer, che vive in una sorta di limbo, fra improvvisi sprazzi di consapevolezza e una sospensione straniante in cui volti e luoghi si mescolano in un tristissimo e inarrestabile oblio e lei moglie innamorata, tentata dall’impronunciabile desiderio di rinchiuderlo in una clinica, per tornare, forse, finalmente a vivere. A questi due personaggi Muccino lascia il compito, di raccontare, fra i tanti tipi di amore narrati nel film, l’amore più difficile, quello capace, malgrado i tremendi urti di una malattia che cancella ogni ricordo e annulla ogni relazione, di resistere, comunque e al di là di tutto.