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Determinazione al femminile
L’urgenza e la necessità di un film come Ciao amore, vado a combattere sono forse meno evidenti rispetto al carattere universale della particolare storia che racconta, ma altrettanto degni di nota. In un periodo storico in cui viene messa in discussione la parità dei generi e assistiamo a un’ondata preoccupante di femminicidi, un film in cui il protagonista assoluto è una donna, eroina mostrata in tutta la sua debolezza e in tutta la sua forza, è ciò che serve all’odierno immaginario collettivo.
L’esordio nel lungometraggio documentario di Simone Manetti porta sul grande schermo la storia di Chantal Ughi, pluricampionessa nell’antica arte del combattimento thailandese Muay Thai, con un passato da attrice, modella e cantante. Il film è un interessante biopic che, a partire dalla decisione di Chantal di riprendere la Thai Boxe per competere nuovamente nel campionato mondiale dopo anni di assenza dal ring, segue la protagonista nella sua preparazione atletica, mettendo in alternanza e in relazione il presente con il passato.
L’intersezione tra i due piani temporali (realizzata attraverso l’uso di materiali d’archivio, fotografie e super 8) non spezza la narrazione, anzi: da un lato opera un avanzamento verso il futuro (che incombe più volte lungo il film con un countdown, a scandire il passo della fatica e dell’allenamento), dall’altro costruisce un’atmosfera compatta che dà un senso di unità a tanti frammenti, che sono poi le diverse vite di Chantal.
Anche le musiche di Francesco Motta conferiscono coesione al film, in perfetta relazione con un montaggio che segue il mood e il battito della musica e della storia: rilassato quando si introduce il personaggio o si raccontano momenti di sconforto, accelerato e grintoso quando la narrazione (soprattutto visiva, oltreché verbale) si addentra nel periodo di gloria della carriera di Chantal. Oltre ad una scelta oculata delle musiche, Manetti e il sound designer Thomas Giorgi mostrano un’attenzione particolare per l’aspetto acustico generale del film, usando il sonoro come una chiave per trasmettere emozioni e sensazioni della protagonista: quando la donna apprende che non potrà partecipare al campionato, le voci vengono gradualmente attenuate e noi percepiamo solo i rumori di fondo ambientale. Il regista livornese dunque gioca sul confine tra documentario e fiction tanto con il sonoro quanto a livello visivo, citando Toro scatenato di Martin Scorsese o Million Dollar Baby di Clint Eastwood nella composizione delle inquadrature, nella vicinanza della macchina da presa al corpo della combattente o ancora nel ritmo del montaggio.
La costruzione del film ci dà modo di conoscere intimamente Chantal. La sua partecipazione è senza filtri: si confida parlando al regista e allo spettatore. Talvolta, quasi dovesse nuovamente costruire un personaggio, sfiora un esibizionismo sentimentale. A questo la regia di Manetti aggiunge un esibizionismo fisico: il sudore segna il volto quanto lo segnano i pugni e i colpi ricevuti. Chantal ci chiama vicini a sé, vicini al suo viso per farci vedere, osservare, analizzare, scrutare. Il corpo diventa territorio di conflitto non soltanto agonistico e abdica a una certa femminilità (che pure era stata perseguita nei trascorsi da attrice) per crearne una nuova, attraverso un percorso fatto di ritualità, di disciplina, di sforzo. Perché il Muay Thai è anche tutto questo. Ed è pure una danza, una coreografia, una strada lungo la quale incamminarsi per trovare sé stessi.
Ciao amore, vado a combattere ci parla dell’importanza di avere fiducia in se stessi e di non tradire la propria “anima da combattente”.