Fascino senza tempo
Parlare di Via col vento dopo ottantun’anni di successo sembra quasi un dire delle ovvietà. L’importante di questo film, del resto, non sono le nostalgie del passato sudista e schiavista della trama, rievocate agli albori della Seconda Guerra Mondiale – che Leslie Howard (Ashley) definiva “a terrible lot of nonsense” (ma accettò lo stesso la parte, per raccogliere il capitale per la sua casa di produzione di film di propaganda antinazista). Quel che resta di Via col Vento è lo sfavillante Technicolor, il rosso del fuoco e del tramonto, i controluce di Leigh e De Havilland che fuggono da Atlanta, il velluto tangibile delle tende di Tara, il tessuto dei vestiti di Rossella, le battute rimaste negli anni (“Francamente, me ne infischio”, “Domani è un altro giorno”). O la musica di Max Steiner, quasi tre ore di composizioni originali ispirate principalmente a folk tunes del sud come Louisiana Belle o Marching Through Georgia ma tra le quali è rimasto nell’immaginario collettivo il tema di Tara dal tono epico – interessante notare come, tra i pezzi, esiste il tema dell’amore di Ashley e Melanie e quello di Rossella per Ashley ma non c’è, volutamente, un tema di Rhett e Rossella. Oltre a personaggi iconici: una protagonista femminile non sempre positiva, ma intelligente, a tratti diabolica e ammirevole per la sua potenza di guerriera, un affascinante gentiluomo del sud e la sua buona ingenua consorte che non merita di essere odiata ma lo è (un archetipo in cui è ancora molto facile innestare l’empatia), il baffo malandrino di Rhett sogno di ogni donna ma non di Rossella, la pazienza di Mami.
In una parola, di Via col vento resta l’immaginario, che anche chi (vergogna!) non ha mai visto il film per intero conosce. Un immaginario che ha germogliato altre storie, extradiegetiche, più interessanti degli innumerevoli seguiti di poco peso tentati negli anni a venire. Mi riferisco alla morte anzitempo di tre personaggi principali su cinque e al corpo di Olivia de Havilland, ultracentenario, ancora lì a testimoniare come quelle forme antropomorfiche in movimento in quel tripudio di colori e scenografie mastodontiche non fossero solo ombre in movimento. O gli aneddoti leggendari: i litigi fra D. O. Selznick (produttore) e George Cuckor (regista) che sfiancarono quest’ultimo, i casting dove mise bocca perfino la first lady Eleanor Roosevelt per suggerire la sua governante nel ruolo di Mami e dovette vedersela con la preferita di Clark Gable, Hattie McDaniel, che vinse la parte (e vinse anche un Oscar). O Gary Cooper, che rifiutò la parte di Rhett prevedendo un totale fallimento del film – una di quelle previsioni totalmente sbagliate, che vanno assieme alla Decca che rifiuta i Beatles. O le polemiche per la scelta di Vivien Leigh, che amava il personaggio di Rossella (ma era inglese) invece di Paulette Goddard, all’epoca pupilla e compagna di Chaplin. O la colonna sonora per la quale Selznick pagò di tasca sua una salata penale alla MGM pur di avere Max Steiner, nonostante il musicista avesse l’esclusiva con i Fratelli Warner. Tutto ciò è parte della leggenda: la sfida alla quale Selznick ha dedicato tre anni della sua vita è stata, negli anni, ampiamente vinta.
E chi non ha mai visto il film per intero può cogliere l’occasione con il ritorno del film in sala in occasione della nuova uscita del romanzo di Margaret Mitchell, pubblicato da un editore italiano molto sui generis: Neri Pozza.