Easy watching
Osare o non osare? Questo è il dilemma… Parafrasando Shakespeare è possibile evidenziare il limite di Miles Davis: Birth of the Cool, episodio della storica serie American Masters sui grandi nomi dello spettacolo e della cultura statunitense, ultimo lavoro del documentarista afroamericano Stanley Nelson Jr., autore sempre rivolto al glorioso passato nero (Jonestown, Freedom Riders, Black Panthers).
L’eccessiva riverenza, pur doverosa verso una figura quale Miles Davis, emblema del jazz moderno e anticipatore delle sue molteplici evoluzioni, la cui eredità è un bagaglio culturale enorme per tutto il mondo, fa mancare quello slancio, quel rischio in più che deve essere corso in questi casi, pena l’uniformare un lavoro accattivante alla tipologia standard dell’edutainment televisivo. Lo aveva ben capito Don Cheadle, che con il suo Miles Ahead aveva tentato – con ottimi risultati – l’intentabile: raccontare il mito “Davis” smitizzandolo, mostrando il suo lato più fragile e oscuro in un processo che ne scongiurasse la deificazione, in favore di un racconto più asciutto e reale dell’uomo e dell’artista.
Nelson preferisce invece imbrigliare il documentario in un percorso lineare, che si limita a elencare e ordinare le tappe esistenziali del jazzista e le numerose fasi della sua musica. Ne esce così un lavoro interessante pur senza particolari stimoli, che rende omaggio ma non merito alla complessa figura del trombettista. Dagli esordi nell’orchestra di Billy Eckstine passando per il cool jazz e il modale, fino a funky e acid, il film ne ricostruisce la vita e la carriera, restando però sempre in superficie, senza indagare mai in profondità i fattori personali, contestuali e creativi.
Come si evince dalle numerose testimonianze raccolte di parenti e collaboratori – tra cui Quincy Jones, Marcus Miller, Carlos Santana, Herbie Hancock, Wayne Shorter e Jimmy Cobb, ultimo membro del leggendario quintetto di Kind of Blue recentemente scomparso – e ancor di più dalla musica, Miles era un vulcano di idee, figura complessa e difficile alla continua ricerca di un’ordine preciso da dare a sé attraverso la propria arte. “La musica è sempre stata una dannazione per me, continuamente mi sono sentito spinto a suonarla”: le parole in apertura nel film sono emblematiche e racchiudono l’essenza stessa di Davis, ma se il suo jazz è fatto per essere esplorato, nota dopo nota come si passa da una stanza all’altra, la sua figura non può essere da meno.