Ansa e Holappa sono due persone povere appartenenti alla working class finlandese. Ogni giorno devono lottare con la precarietà della loro vita e con la radio che, ogni volta che si accende, vomita addosso notizie di guerra. C’è posto per l’amore? Sì. A fatica occorre ritrovare lo slancio per il cinema, per la leggerezza, per gli animali, per la vita.
Il titolo originale di questo film, Kuolleet lehdet, è quello di una canzone che è la cover suomi del grande successo di Juliette Gréco scritto da Jacques Prévert e diventato standard jazz – Les feuilles mortes. Il pezzo passa nei titoli di coda. E di quel pezzo, questo film conserva lo struggente romanticismo e una verità, che l’opera tenta (riuscendo) di ricucire: “Ma la vita separa chi si ama, dolcemente, senza far rumore”. Ansa e Holappa sono davvero precari come due foglie al vento: divisi dai contratti che scadono, dalla profonda solitudine nella quale sono immersi, dal mondo atomizzato, dai soldi che non ci sono, dal fatto che lui ha un problema con l’alcol e dalla radio – un colpo di genio – sulla quale la musica va cercata girando le manopole perché per prima cosa vengono sempre i telegiornali con le loro pessime notizie di guerra che fanno male e riempiono di fatica la testa di chi le ascolta.
Eppure, in tutto questo si salva l’amico scemo che fa karaoke, l’affetto per un cane (altra costante di Kaurismäki assieme all’alcol) e, piano piano, a poco a poco e grazie al cinema – in una maniera delicata degna del migliore Truffaut – si ricostruisce l’amore. Del resto, Kaurismäki è un inguaribile bohémien. Da Henri Murger – che la Vita di Bohème l’ha narrata – ha ereditato una queste: la ricerca di una conscia leggerezza, ostinatamente non omologata. È la leggerezza che cercano le persone con l’animo pesante, come Holappa, che cerca di superarla bevendo. E la sua ricerca di leggerezza nonostante tutto è un qualcosa che rende questo film una piccola perla. E il messaggio vero di speranza, una speranza profonda ed esistenziale, è portato senza didascalismi, senza che occorrano lutti perché la trama svolti, senza violenza inutile (la presenza di un cane e della working class più precaria fa immediatamente scattare il paragone con The Old Oak).
Il cane di Vita di Bohème si chiamava Baudelaire, come il più grande dei bohémien, il capofila di quella corrente che – già negli anni di Luigi Filippo in Francia – aveva capito che il capitalismo avrebbe sempre considerato la cultura un business instabile, tutto sommato poco utile e da omologare o da mollare subito in caso di crisi. Il cane di Foglie al vento si chiama Charlie Chaplin ed è assieme ad Ansa e Holappa quando camminano nel sole. È una delle immagini d’amore più belle dei film delle ultime decadi: è un amore totale, che include i partner in cerca di leggerezza e il non-umano. Kaurismäki ha davvero intercettato molto del mondo contemporaneo, lo sa a che punto siamo. E Foglie al vento riesce davvero a essere un film di quelli che lasciano lo spettatore con addosso una carica positiva, davvero positiva. Un briciolino di speranza nell’umanità.