Ritratto di una diva stanca
Che Renée Zellweger fosse bravissima lo sapevamo. Che riuscisse a far totalmente scordare lo spettatore di se stessa e di quei tratti personali che ha comunque dato a personaggi diversissimi fra loro come Roxie Hart o Briget Jones non era scontato – ciò la porta, in questo superlativo Judy, a un livello professionale ulteriore – l’Oscar è stato meritatissimo. La stessa voce di Zellweger, che conosciamo appunto dai tempi di Chicago, si è scurita di colore ma ampliata di estensione per cantare personalmente le grandi hit di Garland come The Trolley Song o l’iconica Somewhere over the Rainbow. Il film, che viene dal musical di Peter Quilter End of the rainbow, varrebbe anche solo per la sua stupenda performance.
Ma c’è di più, ovviamente. Guardare Judy è come grattare via la patina di sogno dalle foto divistiche degli anni della Hollywood classica per guardare dentro al cuore e all’anima della donna dentro a quelle foto. Judy Garland era figlia di una delle grandi famiglie del vaudeville, quelle dove le mamme manager sapevano – o credevano di sapere – ciò che era bene per i loro figli. Il film insiste su come la stanchezza esistenziale di Judy venga dal fatto che in vita sua mai ha provato l’esperienza di non subire pressioni in vista di una performance su un palco. La prima volta che ha calcato le scene aveva due anni, terminata la pressione della madre è iniziata quella di Louis B. Mayer della MGM (è col suo monologo che il film inizia) e l’imposizione di orari assurdi, compleanni fittizi per la stampa e pillole invece di cibo reale per non ingrassare. Una fase che ha reso Judy Garland per sempre dipendente dai farmaci. Poi si sono alternati gli uomini: Minnelli (mai menzionato), Luft e i suoi tentativi di trovare ingaggi a una Judy oramai esausta e, in ultimo, Micky il giovane marito finale. Tutti a darsi da fare per una donna che non avrebbe voluto altro che riposarsi. È impossibile non trovare dei punti di empatia con questo personaggio stremato, che cerca con le ultime forze di andare avanti.
Andare avanti verso un pubblico che sa essere cattivo – il film non è affatto indulgente con gli spettatori, pronti a distruggerti se non gli dai quello che si aspettano. E, in genere, si aspettano che un intrattenitore sia sempre in forma, che abbia i soldi, che se la passi meglio di loro. Quindi si sentono in dovere di demolirlo se qualcosa nell’intrattenitore s’inceppa. Come non pensare, vedendo Judy, ai grandi performer in cui qualcosa a un certo punto si è inceppato – un nome per tutti, Amy Winehouse. Per fortuna dove c’è il risentimento c’è anche l’amore: quando Judy riesce a mostrare la sua fragilità, oramai sciolto il pressante legame contrattuale, è come se la maschera della diva calasse e il pubblico si rendesse finalmente conto di una grande verità: siamo tutti esseri umani, non è un piedistallo o una foto glamour a spazzare via punti di forza o ferite fatali. Somewhere over the rainbow allora prende un’altra connotazione: il luogo sotto l’arcobaleno diventa il luogo di pace che uno desidera e non raggiunge.