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I suoni del Giappone interiore di Wes Anderson
Dopo Fantastic Mr. Fox, Moonrise Kingdom e Grand Budapest Hotel, Alexandre Desplat torna a collaborare con Wes Anderson per la colonna sonora de L’isola dei cani. Torna, insomma, a lavorare sotto stretta sorveglianza, poiché, è risaputo, il regista esige un controllo maniacale dei dettagli e pretende che ogni aspetto del film rispecchi e promuova la sua cifra stilistica.
Così, nell’Isola dei cani, l’ortogonalità tipica di Anderson, declinata in chiave nipponica, viene tradotta in musica con una rinuncia agli slanci melodici in favore di una verticalità ritmica. Sorprendentemente, il rischio di ripetitività, pur insito nel tematismo limitato, è scongiurato con un ipnotico sottofondo percussivo che gioca sul rinnovamento timbrico, anche grazie al ricorso a frequenti raddoppi, all’interno di un organico già di per sé esteso e stravagante.
Per sottolineare il contesto distopico dell’intera vicenda, Desplat insiste sul registro grave, a partire dal coro di bassi profondi di Shinto Shrine, un brano che, ruotando attorno a un tema ridottissimo, poi più volte ripreso nel corso del film, crea un’atmosfera affascinante e sinistra, a metà tra l’intonazione di un mantra e la marcia militare.
Dato che L’isola dei cani è una fantasticheria incentrata sui prodotti della cultura giapponese, non poteva mancare un omaggio alla musica tradizionale, reso possibile dagli arrangiamenti per tamburi taiko di Kaoru Watanabe, per anni legato al gruppo di percussionisti Kodō: sono proprio i gesti rituali e scenici di questi ultimi a sembrare la fonte d’ispirazione per le movenze di tre deliziosi pupazzi musicisti del film.
Nell’Isola dei cani, la musica si fa poi veicolo di inequivocabili omaggi cinematografici. L’omaggio più significativo è quello ad Akira Kurosawa e dunque al compositore Fumio Hayasaka, con Kanbei & Katsushiro – Kikuchiyo’s Mambo da I sette samurai e Kosame No Oka dall’Angelo ubriaco. Omaggi dichiarati, certo, ma i punti di contatto con Hayasaka sono ben più sostanziali, riscontrabili anche nelle composizioni originali di Desplat per il film. C’è poi un gustoso rifacimento della Troika di Prokofiev da Il luogotenente Kijé e l’inaspettata Tokyo shoe shine boy (sarà soltanto una coincidenza, ma non può che tornare in mente M.A.S.H. di Robert Altman).
Insomma, il risultato è una vicenda sonora eclettica e avvincente, ricca di suggestioni più o meno nipponiche che non hanno però lo scopo di compiacere orecchie occidentali tese al Sol levante, ma di avvalorare una giapponeseria d’autore. Una distinzione sottile, certo, che tuttavia permette di allontanare le numerose critiche di stereotipizzazione e appropriazione culturale mosse a Wes Anderson. Curiosamente, un punto spinoso della faccenda è legato al sonoro: c’è chi al regista non perdona di aver fatto parlare i cani in un inglese forbito (ricorrendo oltretutto a un cast stellare) e di aver riservato ai giapponesi tutt’altro trattamento, attribuendo loro frasi semplici, spesso nemmeno sottotitolate, il cui significato, anche per chi il giapponese non lo parla, è deducibile dal contesto e dalle reazioni degli altri personaggi.
Per rispondere alle accuse, si potrebbe scherzosamente rispolverare la distinzione, prima linguistica e poi antropologica, tra etico (da fonetico) ed emico (da fonemico), ovvero, tra un approccio esterno al sistema e uno interno alla cultura osservata. Ora, Wes Anderson non ha un approccio emico perché, semplicemente, non ha un approccio antropologico, bensì estetico, così come Alexandre Desplat. È il suono della lingua giapponese a risultare interessante, al di là della traduzione, per il modo in cui può concorrere all’idea globale del film, un po’ come i paraventi, che fanno da contrappunto ai famosi movimenti di macchina andersoniani. Accusare il regista di appropriazione culturale per aver fantasticato sul Giappone è fuorviante, data anche la scelta di girare in stop motion, ossia di costruire un microcosmo che si autodefinisce falso.
Fuori da un contesto antropologico, la questione finisce insomma per diventare un capriccio da estremisti, non solo al cinema, ma anche in ambito musicale, ne sia una prova il fatto che nessuno accuserebbe di appropriazione culturale Desplat o il bassista dei West Coast Pop Art Experimental Band perché in I Won’t Hurt You – unica canzone americana dell’Isola dei cani – giocherella con abbozzi di scale pentatoniche, visto che la canzone ha un suo intento estetico. Per di più, benché sia stata scritta più di cinquant’anni fa, è azzeccatissima per il film, non fosse altro per quel timbro percussivo che imita il battito cardiaco e rimanda al significato di Kodō.
Suvvia, se proprio una critica si vuole fare ai WCPAEB, non è certo quella di appropriazione culturale, semmai quella di essersi all’epoca gettati a capofitto nella psichedelia con una sospetta sensibilità verso gli umori del mercato, quella stessa sensibilità che sembra in realtà possedere anche Wes Anderson e sulla quale, per brevità e quieto vivere, conviene chiudere un occhio.