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Un rapido excursus di Vincenzo Palermo sulla musica al cinema
La musica al cinema è sempre stata caratterizzata da un’eterogeneità di stilemi, modalità di rappresentazione, visioni codificate o estemporanee, statuti ontologici ed estetici, vasti immaginari a cui attingere opiena aderenza alla circoscritta realtà storica. La musica al cinema è rock, blues, pop, classica, opera, ma anche ballo, danza e spettacolo poliforme.
Nell’anno appena trascorso è stata all’insegna del jazz, grazie a due pellicole che hanno letto e radiografato, attraverso partiture narrative e fluttuazioni sonore, le diverse “anime” che compongono le immagini del medium cinematografico: Birdman e Whiplash. A colpi di batteria, perché entrambe le pellicole hanno in comune assoli che dilatano o comprimono il tempo della storia. Nel primo film il leitmotiv di Antonio Sanchez scandisce una trama che non ha nulla a che fare con l’elemento “suonato” ma ci conduce verso la (de)costruzione della vita artistica “morente” del personaggio, tra finzione e realtà. In Whiplash di Damien Chazelle, al contrario, il Jazz, col suo ritmo sincopato sta al centro della vicenda, tenendo il tempo di una storia in crescendo che riflette l’urgenza del racconto (di formazione) e di una sofferta iniziazione rituale. Sono passati quasi ottant’anni dal primo film sonoro, Il cantante di jazz.
La musica al cinema, non è mai uguale. A volte è usata come contorno, altre volte è la portata principale. Basti pensare al musical, genere che origina dalla Depressione anni ’30 per consentire una fuga nell’altrove dorato e sognante o alle diverse “fughe” del decennio successivo, nelle città e nelle scuole, fucine in cui si riscopre l’individuo, fino ad arrivare alla rappresentazione compromissoria tra realismo funzionale e fantasticheria magica nel musical anni ’60. Poi è la volta delle rock opera, dei lungometraggi con (e su) Elvis e della riattualizzazione della mitologia rock attraverso concerti in presa diretta (Monterey Pop, Woodstock).
La settima arte vive di continue rivoluzioni, grandi e piccole, ma quella “copernicana” che ha contribuito a rifondare lo statuto ontologico del grande schermo è rappresentata dal passaggio dal muto al sonoro. L’età “senza suono” per ciò che riguarda la ricezione del pubblico, non può però considerarsi una vera e propria “silent era”, giacché i film che venivano proiettati nelle piazze o nei teatri non erano completamente muti. Organisti, pianisti o orchestre creavano la colonna sonora dal vivo che non di rado era accompagnata da commenti e letture di didascalie per spiegare le singole scene. Il suono, alla fine, c’è sempre stato ed è vecchio quanto il cinema stesso.
Oggi il panorama non è cambiato del tutto. The Artist e Blancanieves tributano omaggi a quel cinema muto e alle sue colonne sonore, mentre la riproposizione di grandi concerti (Queen – Rock at Montreal, Back to front – Peter Gabriel live in London, Dream Theater – Live at Luna park) riportano l’evento concertistico al cinema. Dal biopic (Quando l’amore brucia l’anima – Walk the Line, Io non sono qui, Control, La vie en rose, Jersey Boys) al musical moderno (da Moulin Rouge a Into the woods), dai film-concerto (Metallica 3D – Through the never) al documentario canonico (Amy) le note continuano ad essere l’elemento alchemico principale per creare la perfetta “chimica” cinematografica, insieme di immagini, bianchi, neri, colori, rumori e soprattutto musica, tanta musica.
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