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In onda mercoledì 24 gennaio su Cine Sony, ore 21
Io son l’amore
Pur inserendosi nel sistema fortemente retorico del cinema sociale americano, capace di dosare con sapienza i suoi ingredienti per non deludere le aspettative di un pubblico in genere già sensibile alle tematiche affrontate, progressista e politicamente corretto, Philadelphia di Jonathan Demme è una pietra miliare nel suo genere che ribalta alcuni presupposti culturali del decennio precedente.
Sdoganando definitivamente la questione dell’AIDS, fino ad allora sottovalutata e additata come “piaga” di una specifica categoria sessuale, Demme educa e informa su una realtà scottante allora considerata tabù dal tradizionalismo statunitense di cui la politica di Regan e Bush padre erano evidenti espressioni. Il mito del virile machismo americano è qui decostruito dalla non celata omosessualità di Andrew Beckett, vittima di un’intolleranza e una discriminazione pari a quelle subite dalla popolazione nera di cui il co-protagonista Joseph Miller è rappresentante. Il film così, parlando di un tema, ne affrontare molti altri a esso correlati, facendosi ritratto sentito e veritiero dei limiti che allora come oggi minano il contesto sociale del Paese.
Ruolo essenziale nella pellicola assume la componente musicale, elemento praticamente onnipresente volto a sottolineare in diverse modalità la narrazione. Oltre alle composizioni per archi di Howard Shore che svolgono la funzione principale di empatica enfatizzazione emotiva attraverso regolari crescendi e diminuendi nei momenti di pathos, maggior rilievo assumono i brani cantati, tre dei quali in particolare si fanno protagonisti assoluti delle rispettive scene in cui sono inseriti.
Premiata con l’Oscar 1994 per la Migior Canzone, Street of Philadelphia apre il film, ne racchiude l’anima, raccontando la solitudine e l’abbandono provato da Beckett. Nella dolente ballata per tastiera, basso e batteria composta da Bruce Springsteen su richiesta del regista che ne diresse successivamente anche il video, il protagonista vaga ramingo per la sua città in cerca di un “angelo che venga a salutarmi”, di quel calore umano di cui è ormai privato, abbandonato a se stesso e al proprio male quasi questo fosse una colpa.
In maniera simile il brano Philadelphia di Neil Young accompagna il finale. La macchina da presa si muove sinuosa nell’appartamento di Beckett affollato dai parenti e conoscenti radunatisi per celebrarne la scomparsa in una cerimonia laica. Il cantante assume il punto di vista del giovane “Qualcuno mi sta parlando/chiamando il mio nome/Dimmi non sono da biasimare/Non vorrò vergognarmi dell’amore”: un messaggio chiaro, espressione di una matura presa di coscienza che non cerca commiserazione bensì accettazione.
Ma è nella più famosa scena del film che la musica esprime tutto il suo potenziale significante. Quando il protagonista, ormai debilitato dalla malattia, si abbandona all’ascolto della Callas nell’aria La mamma morta dall’Andrea Chénier di Umberto Giordano spiegandone a Miller i passaggi, l’immagine trasfigura assumendo una tonalità rossa, espressione della passionalità della cantante e di Beckett: “Sorridi e spera! Io son l’amore!/Tutto intorno e sangue e fango?/Io son divino! Io son l’oblio!”. È il momento della rivelazione, Miller comprende la natura del ragazzo, il suo essere umano, un individuo con sentimenti pari ai suoi e non uno scherzo di natura. Da questo momento il loro rapporto cambierà, divenendo di condivisa fiducia e intesa.
La musica dunque come linguaggio universale, capace di superare ostacoli e limiti, personali e collettivi facendosi terreno di incontro e confronto, strumento di reciproca comprensione e conoscenza.