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All You Need Is Cash
Di per sé, l’idea di realizzare un documentario non ufficiale (dunque non autorizzato) sulla genesi di Sergeant Pepper’s Lonely Hearts Club Band senza inserirne le canzoni è interessante e coraggiosissima: sedando i beatlemaniaci sarebbe più facile sviluppare un’analisi musicale o culturale in profondità, una contestualizzazione o una valutazione della ricezione. Penalizzando l’enfasi, insomma, il ragionamento potrebbe risultare più accessibile. Già, potrebbe.
In The Beatles: Sgt. Pepper & Beyond, la colonna sonora scritta da Andre Barreau e Evan Jolly suggerisce senza citare: linee di violoncello per evocare Eleanor Rigby o sitar d’accompagnamento per il Maharishi. Non si tratta dunque di un ausilio alla comprensione musicale o di una guida per orientarsi tra le mille trovate della lunghissima sessione di registrazione dell’album, poiché di tutto questo non si fa menzione nel documentario. Si preferisce un approccio agiografico, lasciando intendere che il canone, già ufficializzato, rende superflua un’ulteriore critica degli scartafacci. Dunque né musica né discorso sulla musica. Ciononostante, la pellicola vanta un cospicuo catalogo di luoghi comuni, tra cui “i-Beatles-più-famosi-di-Gesù” e “McCartney-vero-avanguardista-dei-Beatles”.
Pur insistendo sull’esplosione di colori che accompagna l’ascesa dei Beatles e di Sgt. Pepper in particolare, il documentario appare grigio e graficamente deludente. Si affida all’aneddotica, in qualche caso inedita, ma manca di una chiave di lettura e di una cronologia chiara (si va dalla crisi del ’66 al White Album, senza mai nominare il Magical Mistery Tour). Affidarsi all’aneddotica significa rischiare il malinteso, soprattutto quando la psichedelia passa per una trovata locale, le influenze statunitensi vengono candidamente omesse e l’interesse per l’India è un capriccio.
A sorpresa, surclassando persino l’apporto di George Martin, il grande e celebrato protagonista del documentario risulta Brian Epstein: si fa strada il sospetto di partigianeria, anche perché molte delle teste parlanti sullo schermo sono della cricca di Liverpool, tra cui un prolisso Pete Best (il che getta nuova luce sui motivi della sua estromissione dalla band).
La palma della vittoria va quindi alla Lucky Red, che ha spacciato un documentario non ufficiale per ufficiale pompando l’evento in occasione dei cinquant’anni dell’album, ha costruito un sito sfavillante che dirotta l’attenzione su argomenti quasi totalmente assenti nella pellicola e − perché no − ha giocato sulla facile confusione tra Alan Parker e Alan G. Parker, non fornendo un approfondimento sul regista. Avevano ragione i Rutles: All you need is cash.