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Puro pop
The Kid, cioè Prince, è l’eroe di Purple Rain che ritorna in questo sequel: bello, ambiguo, spesso mezzo nudo, canterino. Morris è il suo rivale. Entrambi sono stati inclusi nel testamento di Billy, che nel film precedente era proprietario del locale First Avenue Club. Questo li obbliga a dividersi il Glam Slam di cui Morris ha una parte, mentre il Pandemonium, un altro locale cool della zona, è interamente suo. Ciò non gli basta: vuole il controllo su gli altri due club e sulla parte di Glam Slam in mano a The Kid. La vicenda, prevedibilmente, si risolve in una sfida finale ma a complicare le cose arriva il personaggio di Aura, un angelo mandato dal cielo per far rigare dritti i due contendenti.
Che dire? Tutto l’immaginario pop anni Ottanta (seppure il film sia uscito nel 1990) è racchiuso in quest’ora e mezza di pellicola. Graffiti Bridge, ne sono certa, dev’essere la struttura sulla quale è stata imbastita la San Junipero di Black Mirror: una location estremamente falsa dove, oltre ai locali dai nomi tremendi, ai bad guys, alle prime comparse dei videogiochi e agli angeli intriganti non c’è molto altro – ma ci piace così.
Ci ricorda la parte spensierata, colorata, cotonata e arricciata degli anni Ottanta. Ci ricorda i rullanti mixati avanti a tutti gli altri strumenti e assieme alla voce, i bei tempi in cui Madonna c’era anche quando non c’era. Sì perché è chiaro e lampante che dietro al personaggio di Ingrid Chavez avrebbe dovuto esserci la Ciccone, la quale apostrofò (con il solito tatto che la contraddistingue) la sceneggiatura definendola “a piece of shit”, non molto tempo prima di aver distrutto l’assolo di chitarra di Prince in quello che avrebbe dovuto essere il frutto più alto del loro amore, Like a Prayer. Eppure, Aura sussurra come Madonna, è sfrontata e angelicata come all’epoca Madonna voleva far credere di essere, lancia frasi ad effetto come quest’ultima faceva ed ha sempre fatto. In seguito, Prince provò anche a proporre il personaggio a Kim Basinger, che pure frequentò, ma (fortunatamente per Kim) ruppero poco prima dell’inizio della produzione.
Sì perché il film si aggiudicò ben cinque nomination ai Razzie Awards (peggior film, peggior attore, peggior regista, peggiore sceneggiatura, peggior esordiente). Cinque nomination meritate: a dire la verità non c’è nessun valore artistico in Graffiti Bridge se non fosse che il tempo ha reso l’estetica anni Ottanta interessante. D’altronde, viviamo in tempi fondamentalmente nostalgici. Meglio comunque ricordare il povero Prince Roger Nelson per altre cose: la sua disinvoltura con la chitarra, i complimenti e l’ammirazione di un grande del secolo scorso come Miles Davis. Graffiti Bridge, la cui trama non è affatto importante (e sui dialoghi è meglio sorvolare), è gradevole perché pop, puro pop. Uno di quei lunghi videoclip che andavano tra metà anni Ottanta e inizio anni Novanta, quando c’erano soldi da buttare, che oggi giorno vengono riciclati (muti) nei locali retro.