La Storia cambia colore
Who lives? Who dies? Who tells your story?
Fra le categorie che permettono di inquadrare il nostro presente, un posto d’onore spetta senz’altro a quella di revisionismo storico. Basta un minuto sul web per capire come la possibilità (e l’opportunità) di riscrivere la Storia siano fra i motivi portanti di un dibattito culturale che spesso assume forma di vera e propria guerra combattuta su più fronti, de-localizzando e traslando di senso il celebre motto orwelliano (“chi controlla il passato..”) fino a farne l’unico slogan sottoscrivibile da soggetti, movimenti, ideali e motivazioni diversissimi tra loro. Se contesti come quello italiano sono resi particolarmente sensibili al fenomeno dalla presenza di ferite mai rimarginate – pensiamo all’annosa battaglia fra chi avalla o rifiuta la versione istituzionale su Olocausto e crimini di guerra comunisti – per le stesse ragioni è logico cercarne l’epicentro negli Stati Uniti d’America, paese ancora egemone sul piano culturale e mediatico, i cui equilibri interni poggiano su un vulcano attivo di tensioni plurisecolari sempre pronte a riesplodere in tutta la loro ferocia.
L’affermarsi di movimenti come #metoo e Black Lives Matter è cartina tornasole di problemi (ancora) attualissimi. Ma le modalità di questi sforzi di ristrutturazione del presente americano ci dicono anche tutta l’importanza del passato nel funzionamento dei processi identitari di un popolo, il suo ruolo di sostrato simbolico in cui riconoscersi/rispecchiarsi, e di cui dove necessario adeguare a sé le rappresentazioni. Un dialogo così acceso col presente non poteva lasciare i libri di Storia indisturbati sul loro scaffale, e l’assalto ai monumenti – che per forza di propagazione lega personaggi distanti come il generale Lee e Indro Montanelli – è solo la punta di un iceberg gigantesco, della cui massa possiamo agevolmente farci un’idea se ci accostiamo alla più recente produzione cinematografica e televisiva statunitense.
Prendendo anche solo il revisionismo storico propriamente detto ci si trova infatti con una lunga lista di esempi, dal Jojo Rabbit di Taika Waititi (su cui si sono spese parole allarmanti come “cinema della negazione” e “revisionismo infantile”) al cambio di prospettiva in chiave Black operato sulla guerra in Vietnam dal recentissimo Da 5 Bloods di Spike Lee, passando per serie come 23/11/63 o Hunters; al centro della costellazione, le ultime opere di un autore regolarmente frainteso per apolitico come Quentin Tarantino, le cui “fantasie” revisioniste – termine abusatissimo che per cautela o incomprensione manca completamente il bersaglio su alcuni dei più inquietanti apologhi storici di tutti i tempi – portano avanti una raffinata analisi teorica sul tema, com’è possibile solo a uno studioso di audiovisivo del calibro di Tarantino, che non solo conosce, ma sperimenta in prima persona tutta l’euforia e la paura per il potere trasformativo del cinema, che può sottrarci alle peggiori tragedie ma anche lavare la nostra coscienza storica in un bagno purificante di sublimazione hollywoodiana (“Sono la storia dei Negri d’America! No? Allora devo essere King Kong…”).
Proprio uno dei bersagli prediletti di Tarantino, quel John Ford il cui print the Legend resta la più perfetta formulazione del potere mitopoietico del cinema e del ruolo fondativo delle grandi narrazioni epiche nella cultura americana, può aiutarci ancora oggi a comprendere un’operazione come Hamilton (2015) che pur recentissima sembra essersi già ritagliata un posto importante fra di esse. Il musical di Broadway sul padre fondatore e primo Segretario del Tesoro Alexander Hamilton, composto nell’arco di ben sei anni dal talentuoso Lin-Manuel Miranda, ha ammaliato il pubblico col suo cocktail di melodia tradizionale e virtuosismo hip hop, infrangendo svariati record di biglietti staccati e divenendo in breve tempo così popolare che il governo americano ha preferito tornare indietro sulla sua decisione di eliminare il ritratto di Hamilton dalle banconote da dieci dollari. Ma si è anche attirato critiche per il casting di attori afroamericani in ruoli come Washington, Jefferson o Lafayette e per la scelta di glissare su alcuni degli aspetti più controversi dei padri fondatori, in primis lo stesso Hamilton.
Disponibile a un pubblico ancora più vasto dopo l’ingresso in versione filmata su Disney+, Hamilton aggiunge un tassello fondamentale al mosaico revisionista, di cui esemplifica altrettanto bene gli aspetti di riscrittura del passato e quelli (numericamente e simbolicamente ancora più importanti) che fanno leva su inclusività e rappresentazione, ormai introiettati a livello di vera e propria pratica industriale in quasi tutto il panorama mainstream a dispetto dei continui attacchi al politically correct di Hollywood e dintorni. Come sigla l’inclusione nel catalogo Disney, l’opera di Miranda trova in questo clima di fermento produttivo una collocazione naturale e preminente, forte al contempo di specificità capaci di sottrarla a quei circoli viziosi legati all’ormai estrema permeabilità tra fase creativa e feedback da parte del pubblico, che negli ultimi anni hanno portato troppe produzioni a correre ai ripari con un’ostentazione di progressismo artificiosa e di facciata. Nel caso di Hamilton, l’evidente sincerità ed ispirazione del suo messaggio e il dato della sua genesi artigianale, “vecchio stile”, hanno aggirato le riserve del pubblico, che ha così dimostrato di poter gradire non poco una formulazione in ogni senso più colta, genuina e stimolante dello stesso spirito dei tempi.
Come per Tarantino, ma in un senso ben più rassicurante e conservatore, il fascino dell’operazione revisionista di Hamilton sta anche nella profonda riflessione meta-testuale che ne accompagna e tematizza lo svolgersi, evidenziando gli aspetti di continuità fra i cambiamenti culturali in cui il musical si inscrive e le precedenti “rivoluzioni dell’immaginario”, prima fra tutte quella del paese giovane, aggressivo e affamato che nel 1776 lottò per appropriarsi definitivamente della propria identità emancipandosi da una patria e una cultura ormai lontane. Allo stesso modo è evidente il gioco di corrispondenze fra il personaggio di Hamilton, economista e rètore di genio arrivato dal fango dei bassifondi a scrivere la storia americana, la cui vicenda secondo Miranda è la più hip hop di sempre perchè “he wrote his way to the top”, e lo stesso Miranda, che con la forza sincopata della parola rap conquista la ribalta regalando al contempo a un’altra rivoluzione (contemporanea) il suo manifesto. Che non è un manifesto di distruzione e sovvertimento, ma piuttosto l’opera di un riformista illuminato, un tradizionalista sensibile al vento che cambia, che sa benissimo che è possibile aggiornarsi rimanendo se stessi.
Come insegnava Ford, e come ribadisce Miranda con la sua insistenza sulla forza rivoluzionaria della scrittura, l’America ha espresso i propri valori rimodulando continuamente il campo del visibile/narrabile, trattando la Storia come palinstesto eternamente aggiornabile perché eterne sono le possibilità (idealmente da convertire in opportunità) di cambiamento. Rallentando col suo flow morbido e meditativo il battito cardiaco di quel cambiamento, Hamilton permette di guardare oltre la frenesia di un’industria culturale coi nervi a fior di pelle e riconoscervi l’eterna palingenesi americana, turbata e mandata su di giri da scosse di terremoto la cui polvere sembra ancora assai lontana dal depositarsi. Nato sotto ben altra stella (l’ultimo anno dell’amministrazione Obama) lo stesso Hamilton, che le statue non le distrugge ma le riedifica ad uso del presente, sembra oggi restare indietro rispetto alle derive più estremiste degli ultimi mesi, a riprova di come i cambiamenti non siano monoliti ma possano avere più fasi, più volti, più temperature. Intanto, però, la domanda fondamentale è ancora quella scritta a caratteri cubitali sul suo manifesto: Chi vivrà per raccontare la (nostra) storia?