Il realismo psicologico come questione di stile.
Opera cardine della poetica di Elio Petri riguardante il cinema come strumento di analisi psicologica dell’individuo, I giorni contati rappresenta la prosecuzione del cammino autoriale avviato con L’assassino, di cui costituisce un approfondimento sia sul piano stilistico sia su quello tematico, virando in chiave esistenziale la meditazione sul tempo che nel film precedente era connotata moralmente.
Ancora una volta il pretesto per l’esplorazione dei meandri della mente è offerto dalla crisi di un individuo: Cesare (Salvo Randone, magnifico), un idraulico di 53 anni, assiste sul tram alla scoperta che un passeggero creduto addormentato è in realtà morto a causa di un infarto. Nonostante egli non conosca l’uomo, il solo fatto di esserne coetaneo scatena in lui una valanga di sentimenti che non può essere arginata dalla routine della vita: ansia, terrore, rimpianto, angoscia. Cesare smania, ha perso il suo equilibrio interiore ed è investito da un insieme di sensazioni e di stati d’animo che Petri riesce a trasmettere perfettamente non soltanto grazie all’interpretazione mirabile di Randone ma con un uso magistrale di tutto l’apparato registico: taglio delle inquadrature, luci, montaggio e sonoro riversano sullo spettatore il senso di smarrimento provato dal protagonista. La sovraesposizione dell’immagine nei momenti successivi alla scoperta della morte, le panoramiche a 180 o addirittura a 360 gradi, così come l’asimmetria perturbante del notturno in cui Cesare confida al suo amico di aver deciso di smettere di lavorare, sono chiari segni visivi di una ricerca stilistica votata alla mimesi psicologica: una frattura si è creata nell’animo del protagonista e il suo sguardo sul mondo, sull’ambiente, sulla vita è mutato, così come è mutato il suo “sentire”, affidato a una colonna sonora davvero ricercata.
Le musiche di Ivan Vandor costellano i momenti salienti della narrazione, alternando brani più ritmati quando l’ansia o l’angoscia prendono il sopravvento a momenti più lirici o perfino malinconici quando emerge la volontà di caratterizzare un personaggio o una relazione tra personaggi: si pensi agli incontri tra Cesare e Lucia, oppure alle hit ballabili che marcano il (non) rapporto di Cesare con gli avventori della spiaggia o con la figlia della pensionante. Soprattutto, però, è il vero e proprio “tessuto sonoro” ad agire come elemento stilistico: i suoni e i rumori del traffico, il vociare dei passanti si fondono in una moderna “sinfonia di una grande città”, in cui l’individuo è ridotto a ingranaggio di un progresso meccanico che svuota l’uomo di ogni umanità. Cesare si abbandona al ritmo frenetico della città, inserendosi pienamente nel vortice dell’urbanizzazione per cercare di stare al passo con il tempo della vita: salta sulla moto di un ragazzo, si lancia all’inseguimento di un’autopompa dei vigili del fuoco, sale e scende dai tram. Le riprese in movimento, in camera-car, concretizzano questo desiderio di vita, il bisogno di riappropriarsi del tempo (quasi) perduto, riuscendo persino a dar conto di una concezione bergsoniana del tempo soggettivo.
La città non è più luogo pacifico di armonica convivenza ma centro nevralgico di un malessere generale che riecheggia un giudizio senza appello nei confronti della modernità e che esploderà – visivamente e acusticamente – nell’ultima, straordinaria sequenza.
Contrappeso di questa foga vitale è il tentativo di recupero di un passato che non è stato e non può più essere: Giulia, amore di un tempo che fu, non può acconsentire al desiderio di Cesare poiché la vita può solo andare avanti, non tornare indietro. Ecco perché il film è costellato da segni, richiami, allusioni alla morte: il senso di una fine che si avvicina lo pervade in ogni momento (dai cavalli condotti al mattatoio alla macchina che sfreccia verso l’ospedale suonando il clacson e sventolando il fazzoletto al finestrino) e conferisce all’opera quel carattere di realismo psicologico che lo rende un capolavoro.