Due Maestri a Vigevano
È la voce del maestro Antonio Mombelli a introdurci nella storia che Elio Petri sceglie di adattare, insieme ad Age e Scarpelli, dall’omonimo romanzo di Lucio Mastronardi: prima ci offre, accompagnata da una panoramica aerea sulla città di Vigevano, una panoramica verbale sulla cittadina e sulla sua fiorente economia basata principalmente sui calzaturifici, e dopo, come ad inserire – o ad “incastrare” – il protagonista nel contesto sociale in cui vive, presenta sé stesso, a cominciare dalle sue scarpe (perché “ognuno qui a Vigevano porta le scarpe che può, che deve e che merita. Queste sono le mie scarpe, sono quelle che merito”) e dalla sua professione (“Sono maestro elementare di gruppo B, quarto scatto, coefficiente 271, diciannove anni di servizio”).
Da subito, la regia di Petri si mette al servizio della storia e del suo protagonista: Mombelli viene inquadrato dapprima da sotto le scarpe e successivamente con una panoramica che, simulando lo sguardo valutativo della gente a cui Mombelli stesso ha accennato nella sua introduzione, passa dalle calzature al volto.
Il terzo lungometraggio di Petri pare abbandonare l’esistenzialismo proprio dei primi due film per flirtare con l’industria culturale: abbiamo una sceneggiatura tratta da un romanzo di successo, un eccezionale Alberto Sordi nei panni del protagonista (imposto dalla produzione De Laurentiis), la bravissima Claire Bloom in quelli della moglie Ada.
In realtà la questione è più complicata. Per cominciare, la pellicola non è facilmente classificabile secondo la tassonomia dei generi e così le frasi di lancio si esprimono più per perifrasi o aggettivi caratterizzanti che per definizioni: ad esempio sull’Unità il film è presentato come “nuova interpretazione di un grande attore, […] è commovente, divertente, interessante, curioso, è una novità”. Petri stesso ebbe a dire di quest’opera: “E’ un film drammatico, ma trattato in maniera grottesca”.
In secondo luogo la presenza dello stesso Sordi è inserita da un canto nella fase dell’utilizzo più serio del mattatore, dall’altro nella poetica di Petri dell’affidamento a un personaggio delle sue istanze più politiche, che già si riscontravano nelle opere precedenti: il condizionamento dell’ambiente sociale ed economico sull’uomo, la corruzione morale operata dal (desiderio di) denaro, lo scontro irrisolvibile tra l’aspirazione individuale e la realizzazione sociale.
In terzo luogo, Petri si riconferma assoluto maestro nel far convergere ogni elemento cinematografico nell’espressione della sua poetica, dai temi che sottostanno alla sceneggiatura fino agli aspetti visivi. Abbiamo visto la corrispondenza tra le inquadrature iniziali e la presentazione verbale di Mombelli, a cui si deve aggiungere il subitaneo cambiamento di prospettiva e di scala non appena viene chiamato in causa il direttore della scuola: le figure dei maestri vengono rimpiccolite e schiacciate da un’inquadratura dall’alto, che fissa la direttrice di gerarchia tra il potere e il popolo.
In quest’ottica, anche la colonna sonora rispecchia un’idea di cinema che non è facilmente ascrivibile ad un unico genere o a un’etichetta definitoria: se di base troviamo una continua alternanza tra momenti di ironia e momenti di dramma, la musica di Nino Rota ripete questa indecifrabilità della storia (e della vita) con l’alternanza di brani più ritmicamente connotati e riconoscibili a livello di genere musicale, come Twist delle scarpe o Fox delle scarpe, e di altri più spiccatamente malinconici, ad esempio quello che commenta il momento in cui Antonio scopre che la moglie è andata a lavorare in fabbrica, che è poi una rielaborazione di uno dei temi principali del film, sentito anche sulla seconda parte dei titoli di testa. La musica fornisce anche il canale d’ingresso alle sequenze oniriche: quella in cui Mombelli immagina di poter realizzare i desideri della moglie (la magnifica scena della pelliccia) o quella in cui sogna di ribellarsi alle umiliazioni del direttore. In quest’ultimo caso, oltre alla musica, è proprio tutto l’apparato sonoro ad esprimere lo stato d’animo di Antonio, raggiungendo un effetto cacofonico con l’eco e il riverbero che sembrano far esplodere la rabbia e la frustrazione che lo stanno pressando.
Anche se all’uscita in sala il film lasciò perplessa la critica, che non riuscì probabilmente a vedervi un grande impegno politico o intellettuale, Il maestro di Vigevano costituisce un altro tassello fondamentale della poetica di un grande regista e merita una completa riabilitazione. Del resto, il pubblico lo premiò con un discreto successo, forse perché in grado di leggervi l’umanità di una storia semplice ma molto profonda.