La musica nel cinema di Peter Greenaway

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Solitudine è beatitudine: Greenaway/Nyman/Mertens

In una condizione dove ascesi mistica e graduale discesa tra le maglie di un meraviglioso infernale divengono un tutt’uno, a metà tra la visionarietà di Hieronymus Bosch e lo sfarzo del linguaggio manierista si insinua il cinema di Peter Greenaway.Invasato ispettore della forma e del suo rapporto con la realtà, dietro l’artificiosità e l’inesauribile esercizio di stile che distinguono la sua opera c’è l’uomo: quell’uomo svuotato del suo essere quotidiano, depredato di tutti i tabù e rispetti immotivati di una società cui si allude sempre e solo simbolicamente. Ridotta a una preistoria sensoriale di eros e thanatos, l’umanità che Greenaway rappresenta è tutta corporea, colta in un atavico stato di tensione esistenziale e sessuale, stati d’animo intimamente connessi che costituiscono il binomio su cui la sua opera si dispiega, previo il tema della morte, in modo particolare in Lo zoo di Venere.

Con inquadrature fisse e un’assenza di movimento inserita all’interno di una perfezione formale a tratti claustrofobica, il film è una specie di dramma esistenziale dagli esiti grotteschi sull’ossessione di due gemelli siamesi (notare l’onnipresenza del tema dell’ambivalenza e della compiutezza simmetrica anche in questo espediente) per la decomposizione animale. Lungo tutto l’arco narrativo, a coadiuvarne l’effetto orrorifico – tranne per certe sequenze in cui a dominare è il silenzio domestico di certe raggelanti conversazioni – è la preponderanza di un sonoro cui il cineasta britannico non potrà mai sottrarsi e quel Michael Nyman che diverrà poi suo storico collaboratore. Nel caso di Lo zoo di Venere, come nella maggior parte delle opere musicate da Nyman o Wim Mertens, il sonoro accompagna i personaggi nel progressivo disvelamento di sé, delle proprie perversioni o timori, riuscendo a nobilitare l’aura di un quadro di per sé innaturale e assurdo, non di meno durante le scene di decomposizione animale. Ecco subentrare il tema corporeo all’interno della logica ossessiva e mortifera che vivifica, paradossalmente, l’operato dei due giovani gemelli siamesi e della donna-cavia, interpretata da Andréa Ferreol, quest’ultima in perfetta simbiosi con ciò che sia Greenaway che Marco Ferreri dodici anni prima vogliono veicolare attraverso il suo corpo.

E si potrebbe dire che La grande abbuffata condivida con Greenaway un’ulteriore metafora: il cibo, in Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante visto come allegoria di un’involuzione verso ogni forma di eccesso. Nella sontuosità scenica di un contesto non dissimile a quello teatrale, Nyman sa come porre la consueta staticità e lentezza nella successione spazio-temporale, unita alla studiata ambiguità di certi ambienti, al servizio del sonoro: d’altra parte, la stessa passione di Greenaway per il cinema nasce dal bisogno di elevare la pura immagine figurativa a uno stadio superiore avendo, così, una presa totalizzante sullo spettatore. In quest’opera in cui la collisione dei contrari produrrà degli effetti raccapriccianti la sessualità viene sempre posta al centro del discorso espressivo. Georgina, una statuaria Helen Mirren, voluttuosa e sensualissima nelle forme, consumerà la propria libido nelle situazioni più impensabili, pur consapevole degli esiti nefasti di una tale volontà eversiva. Solennità e tono quasi elegiaco caratterizzano il sonoro che accompagna le ripetute sequenze di adulterio, melodia sempre uguale a se stessa che procede con il medesimo spirito aguzzino del marito di Georgina.

Ne Il ventre dell’architetto vediamo lo stesso marito violato, tuttavia meno iracondo e più stoico, il dilaniato Stourley Kracklite, architetto. Monumentale a livello visivo, il film è il racconto del moto interiore di un architetto americano giunto a Roma per curare una mostra dedicata a Etienne-Louis Boullée. Greenaway passa dalla logica del rovesciamento degli equilibri e del grottesco di Lo zoo di Venere all’intimismo di un dramma così fine e pervadente a livello intellettuale e, nel contempo, emotivo; memorabile, infatti, la scena in cui  Kracklite contempla la successione di fotografie (scattategli dalla sorella di quello che si scoprirà poi essere l’amante della moglie) che raffigurano lui e le sue ossessioni, la sua cecità e la tragedia consumatasi nelle viscere ormai dilaniate del suo animo. L’empatia che si crea nei confronti del personaggio è acuita dalla colonna sonora realizzata, in tal caso, da Wim Mertens: il sodalizio è perfetto. Mertens accompagna il disvelamento di Roma nella sua grandiosità, con un connubio tra imponenza visiva e sonora che non risulta mai ridondante o retorico in quanto coerente con un intento d fondo: sviscerare la città e Kracklite, spogliare l’architetto delle sue convinzioni e renderlo sempre più appannaggio della fuga dal proprio Io che l’ha colpito al suo arrivo in Italia. Così fiero e algido in esordio, ossessionato dall’opera inesistente di un artista lontano nel tempo e dalla sua stessa identità, che sarà brutalmente assassinata dalle pretese altrui, cadrà poi vittima dei propri dubbi: che altro se non la morte quando si è giunti al culmine della vita?

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