Doin’ the white thing
Quando nel 1984 il Premio Pulitzer August Wilson – tra i più significativi autori neri di teatro (suo è anche Fences, trasposto al cinema da Denzel Washington) – presentò a Broadaway Ma Rainey’s Black Bottom la società statunitense stava rapportandosi con una nuova ondata di prodotti culturali black che, come il blues e il jazz nei decenni prima, erano oggetto di interesse da parte dell’industria bianca. Un interesse non certo etno o antropologico, quanto piuttosto un fiorente filone da sfruttare per conquistare una fetta di mercato di grande attrattiva per il mainstream. Un rapporto conflittuale, sempre in bilico tra speculazione manageriale e desiderio di rivalsa artistica espresso dal termine gergale doin’ the white thing, usato dai neri per dire “fare soldi”. Una forma d’imprenditorialità nera – che vede in Spike Lee uno degli esempi più fortunati, riusciti e duraturi – frutto di una nuova coscienza afroamericana che vuole raggiungere i grandi canali di distribuzione, senza però svendere il proprio talento e di cui l’opera di Wilson può essere letta come metafora.
Pare evidente allora che l’adattamento cinematografico della suddetta pièce curato da George C. Wolfe, non faccia che ribadire i medesimi concetti a quasi quarant’anni di distanza, proprio quando altri giovani artisti afroamericani si stanno affermando sul panorama contemporaneo. Ieri come oggi, il recupero di una figura emblematica come la “Madre del blues” non solo ne riconsacra l’iconicità culturale per una nuova generazione, ma ne fa anche un vero e proprio modello di emancipazione artistica nera. Ma Rainey di fatto è stata la prima grande blueswoman, mentore di Bessie Smith a cui ha insegnato a stare sul palco, l’erotismo nell’interpretazione e la determinazione a raggiungere i propri obiettivi, ben conscia della difficoltà di essere donna e al contempo afroamericana in una società fortemente bianca e patriarcale come quella americana di inizio Novecento.
Ma il film di Wolfe non ha nulla di biografico, preferendo piuttosto analizzare il contesto specifico. Ecco allora che – mantenendo l’impianto teatrale originale – il lungometraggio è ambientato tutto all’interno di una sala di registrazione bianca dove un’ormai affermata Ma Rainey è chiamata a incidere il pezzo del titolo, evento attorno al quale si sviluppano due sottotracce che sono le colonne portanti della narrazione. Da una parte, la scarsa coesione dei musicisti si fa specchio della frammentazione interna alla comunità nera, dove la carenza di esperienze collettive viene a creare un insieme di universi individuali spesso in contrasto, da cui emergono ambizioni, punti di vista e traumi singolari, il tutto letteralmente sotto lo sguardo tutelare dei manager bianchi (la cabina di registrazione posta su un soppalco in sala). Dall’altra, il rapporto di natura economica che regola la gerarchia etnica, costringendo l’afroamericano a una scelta di posizione tra l’accettazione di un ruolo subordinato (Levee e il resto della band) e la lotta costante al limite del dispotismo per difendere la propria dignità artistica e personale (Ma Rainey), comunque consapevoli di finire con l’essere sempre turlupinati, come rivela l’amaro finale. E in mezzo il blues, espressione tutta nera della vita che, se non vissuta, non può essere espressa: “la vita parla con il blues. Non si canta per star meglio. Si canta per capire la vita”. Se l’arte è anche commercio, il suo senso profondo non può mai però essere comprato.