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Sinfonia dei sensi
Lido di Venezia, 1911. Un uomo cammina faticosamente sulla spiaggia, appoggiandosi a tratti ad un bagnino, mentre una donna canta a cappella una struggente canzone russa (la Ninna nanna di Modest Mussorgsky su testo di Ostrovskij, interpretata da Masha Predit). Accasciatosi su una sedia a sdraio, l’uomo, sempre più sofferente, guarda il ragazzo oggetto del suo desiderio, che osserva da giorni senza avergli mai neppure rivolto la parola, entrare lentamente in acqua. Una musica soave, malinconica e poi disperata (Gustav Mahler, Adagietto, IV movimento della Quinta Sinfonia) invade la scena. In questo finale di Morte a Venezia, probabilmente uno dei più belli della storia del cinema, Visconti raggiunge una straordinaria perfezione espressiva nella simbiosi tra immagine e musica: la Ninna nanna che accompagna al sonno senza fine restituisce un senso di torpore che i lenti movimenti della macchina da presa, sui primi piani dei villeggianti o in campo lungo scandagliando la vita sulla spiaggia, non fanno che accentuare. La musica di Mahler riesce poi a comunicare in modo sbalorditivo tutti i turbamenti, le sensazioni, le emozioni contrastanti (eros e thanatos, angoscia ed estasi) di un uomo che ammira la celebrazione della vita mentre la sta per perdere. E le stesse smorfie, i gesti, i tremori di un meraviglioso Dirk Bogarde, triste Pierrot sepolto su una sedia a sdraio, cerone e trucco (tintura per capelli) che gli si scioglie in volto, acquistano una forza dirompente grazie alle note di Mahler.
Ma è in tutto il film, (tratto dal romanzo La morte a Venezia di Thomas Mann e che racconta dell’infatuazione di Gustav von Aschenbach, compositore in crisi arrivato a Venezia per un periodo di riposo, per il giovane Tadzio), che la musica ed i suoni cesellano il senso narrativo e la sfaccettata figura del protagonista: dalle sirene della nave nella sequenza iniziale dell’arrivo a Venezia, che, strappando la quieta tela sonora di Mahler, instillano, con l’ausilio di improvvisi zoom su Bogarde, una opprimente sensazione di disagio, a Per Elisa di Beethoven che, suonata al pianoforte da Tadzio e poi da una prostituta, evidenzia come Gustav cerchi nella seconda un surrogato del giovane amato. E ancora Chi vuole con le donne aver fortuna di Armando Gil, cantata da una grottesca banda musicale nella veranda del Grand Hotel, che suggerisce il lato ridicolo del protagonista, anticipando la maschera patetica in cui si sta per trasformare. È inoltre splendido il modo in cui Visconti riesce, con i suoni, le voci che si accavallano, le diverse lingue, i silenzi ed i rumori di fondo (qualcosa che ricorda per certi versi Robert Altman), a raccontare la vita che scorre intorno a Gustav.
Bellissime sono poi le scene di gruppo, tra hall di hotel, saloni da festa e sale da pranzo, con il magistrale scorrere laterale della mdp in piani sequenza che sfociano in primissimi piani di Gustav e Tadzio (scrutati, lungo tutta la pellicola, anche con l’utilizzo insistito dello zoom).
Dilatato, raffinatissimo, con una maniacale cura per i dettagli (dalla scenografia ai costumi), Morte a Venezia è una profonda riflessione sull’arte, la bellezza, la musica, i sensi e la senilità (“Non c’è impurità cosi impura come la vecchiaia”). Un grandissimo film, di un cinema che si potrebbe definire da infusione, ovvero piacere che necessita tempo.