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La musica sullo schermo
Tra i nomi di spicco del New American Cinema Group, Shirley Clarke ha sempre incentrato la sua opera sulla commistione di linguaggi artistici diversi, in particolare con la musica e nello specifico quella afroamericana.
In Skyscaper (1959) il legame è evidentemente associato alla mutazione dello skyline newyorkese di metà secolo. Il jazz, genere di per sé sempre in evoluzione, strutturato nel tema principale e al contempo imprevedibile nelle sue varianti d’improvvisazione, è associato al ritmo della città moderna, di cui il grattacielo è uno dei simboli architettonici per eccellenza. Odierna torre di Babele, simbolo di ricchezza e potere e al contempo dell’aspirazione all’elevazione insita nell’uomo, è proprio il grattacielo il soggetto del corto di Clarke, incentrato sulle fasi di costruzione del 666 Fifth Avenue. Le musiche di Teo Macero, un evidente omaggio gershwiniano accompagnato dal commento in rima di John White in una sorta di antesignano rap – che circa vent’anni dopo sarebbe diventato il nuovo canto della metropoli americana – formulano un inno alla progresso statunitense e ai suoi fautori, in primis progettisti e operai.
Il contatto (1961), primo lungometraggio di finzione di Clarke, è invece un tour de force stilistico a ritmo di be-bop, adattamento dell’omonima pièce di Jack Gelber, girato con macchina a spalla in un monolocale dove un gruppo di jazzisti tossicodipendenti aspetta l’arrivo del loro fornitore in un crescendo di esasperata tensione. Il film si caratterizza per la colonna sonora di Freddie Redd e Jackie McLean – qui anche in veste di attori – che scandisce il ritmo nevrotico della scena, in una versione semi-paranoica del Godot beckettiano. Come L’uomo dal braccio d’oro di Preminger, Il contatto non fa mistero della diffusione e le conseguenze della droga nel coevo ambiente musicale americano, ma la rappresentazione offerta da Clarke non è affatto accomodante né consolatoria, bensì dura e schietta come solo il cinema indipendente sa essere quando vuole.
Ma il fiore all’occhiello è senz’altro Ornette: Made in America (1985), ultima opera della regista, certamente quella più fuori dagli schemi e inclassificabile nelle canoniche categorie di genere. Partendo dal concerto inaugurale del Caravan of Dreams Performing Arts Center di Fort Worth (1983), Clarke ripercorre la vita e la carriera di Ornette Coleman in una forma che riprende lo stile musicale del polistrumentista americano fondatore del free jazz. Alternando esibizioni dal vivo a interviste, video sperimentali e una ricostruzione finzionale della vita del musicista, il film è un omaggio alla sua arte giocato su assonanze e associazioni senza particolare ordine cronologico, un’opera apparentemente discontinua ma in realtà densa e stratificata che, come la ricerca di Coleman, rifiuta la tradizionale linearità per indirizzarsi su territori nuovi e apparentemente stridenti. La sintesi perfetta del cinema di Shirley Clarke che si dimostra, ieri come oggi, uno dei vertici della sperimentazione underground del secondo Novecento, figura da indagare e riscoprire quale pioniera di un nuovo linguaggio della settima arte.
L’articolo è apparso anche su Cinefilia Ritrovata
SCHEDE TECNICHE:
Skyscaper (USA, 1959) – REGIA: Shirley Clarke, Wheaton Galentine, Willard Van Dyke, Irving Jacoby, D.A. Pennebaker. SCENEGGIATURA: John White. MUSICA: Teo Macero. GENERE: Documentario. DURATA: 21′
Il contatto (The Connection, USA,1961) – REGIA: Shirley Clarke. SCENEGGIATURA: Jack Gelber [dalla sua pièce teatrale omonima]. FOTOGRAFIA: Arthur J. Ornitz. MONTAGGIO: Shirley Clarke. MUSICA: Freddie Redd, Jackie McLean. CAST: Warren Finnerty, William Redfield, Freddie Redd, Jackie McLean. GENERE: Drammatico. DURATA: 107′
Ornette: Made in America (USA, 1985) – REGIA: Shirley Clarke. FOTOGRAFIA: Edward Lachman. MONTAGGIO: Shirley Clarke. MUSICA: Ornette Coleman. CAST: Ornette Coleman, John Giordano, Don Cherry, James Clay. GENERE: Documentario. DURATA: 85′
https://vimeo.com/298851010[:en]
La musica sullo schermo
Tra i nomi di spicco del New American Cinema Group, Shirley Clarke ha sempre incentrato la sua opera sulla commistione di linguaggi artistici diversi, in particolare con la musica e nello specifico quella afroamericana.
In Skyscaper (1959) il legame è evidentemente associato alla mutazione dello skyline newyorkese di metà secolo. Il jazz, genere di per sé sempre in evoluzione, strutturato nel tema principale e al contempo imprevedibile nelle sue varianti d’improvvisazione, è associato al ritmo della città moderna, di cui il grattacielo è uno dei simboli architettonici per eccellenza. Odierna torre di Babele, simbolo di ricchezza e potere e al contempo dell’aspirazione all’elevazione insita nell’uomo, è proprio il grattacielo il soggetto del corto di Clarke, incentrato sulle fasi di costruzione del 666 Fifth Avenue. Le musiche di Teo Macero, un evidente omaggio gershwiniano accompagnato dal commento in rima di John White in una sorta di antesignano rap – che circa vent’anni dopo sarebbe diventato il nuovo canto della metropoli americana – formulano un inno alla progresso statunitense e ai suoi fautori, in primis progettisti e operai.
Il contatto (1961), primo lungometraggio di finzione di Clarke, è invece un tour de force stilistico a ritmo di be-bop, adattamento dell’omonima pièce di Jack Gelber, girato con macchina a spalla in un monolocale dove un gruppo di jazzisti tossicodipendenti aspetta l’arrivo del loro fornitore in un crescendo di esasperata tensione. Il film si caratterizza per la colonna sonora di Freddie Redd e Jackie McLean – qui anche in veste di attori – che scandisce il ritmo nevrotico della scena, in una versione semi-paranoica del Godot beckettiano. Come L’uomo dal braccio d’oro di Preminger, Il contatto non fa mistero della diffusione e le conseguenze della droga nel coevo ambiente musicale americano, ma la rappresentazione offerta da Clarke non è affatto accomodante né consolatoria, bensì dura e schietta come solo il cinema indipendente sa essere quando vuole.
Ma il fiore all’occhiello è senz’altro Ornette: Made in America (1985), ultima opera della regista, certamente quella più fuori dagli schemi e inclassificabile nelle canoniche categorie di genere. Partendo dal concerto inaugurale del Caravan of Dreams Performing Arts Center di Fort Worth (1983), Clarke ripercorre la vita e la carriera di Ornette Coleman in una forma che riprende lo stile musicale del polistrumentista americano fondatore del free jazz. Alternando esibizioni dal vivo a interviste, video sperimentali e una ricostruzione finzionale della vita del musicista, il film è un omaggio alla sua arte giocato su assonanze e associazioni senza particolare ordine cronologico, un’opera apparentemente discontinua ma in realtà densa e stratificata che, come la ricerca di Coleman, rifiuta la tradizionale linearità per indirizzarsi su territori nuovi e apparentemente stridenti. La sintesi perfetta del cinema di Shirley Clarke che si dimostra, ieri come oggi, uno dei vertici della sperimentazione underground del secondo Novecento, figura da indagare e riscoprire quale pioniera di un nuovo linguaggio della settima arte.