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La conquista dell’Est
A cinque anni da Monterey Pop, film iniziatore di un innovativo modo di coniugare la fruizione musicale con il cinema, Il più grande concerto rock del mondo riafferma il mito e l’ideologia ormai perduta nella precoce adolescenza del genere musicale bianco del ventesimo secolo.
Il revival che interessò il rock tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta rappresenta un ritorno alle origini, una riscoperta del valore emotivamente liberatorio connesso alla musica giovanile di quegli anni. Rapidamente sostituito dall’impegno sociale legato alle coeve battaglie civili, così come dalle esperienze introspettive del psychedelic e del progressive, questa musica ha infatti perso presto la sua puerile ingenuità, fatta di pruriti erotici, sogni e trasgressioni, chiara manifestazione di un Paese che – appena fuori dalla guerra – si presentava al mondo con rinnovata vitalità ed entusiasmo. Il dinamismo del rhythm ‘n’ blues rielaborato in chiave W.A.S.P. diventava così il principale veicolo espressivo di una precisa predisposizione, un desiderio di conquista con cui la giovane America guardava alla più matura, ma sempre affascinante Europa, già oggetto per la generazione precedente di un desiderio nazional-popolare velato nel cinema musical.
Sulla scia della logica culturale di quei film, Peter Clifton si approccia al concerto londinese al Wembley Stadium del 1972, filmando le numerose old stars intente a contendersi lo scettro e il trono di Re Elvis ormai in declino. Il fenomeno musicale è presentato qui nei suoi cliché e rituali originari, un intrattenimento per adulti dove a fare da padroni sono ancora i vecchi leoni di un tempo.
Così i ritmi pulsanti di Bo Diddley, le coreografie di Bill Haley, la duck walk di Chuck Berry, il torso nudo e sudato di Little Richard o il movimento di lombi di Jerry Lee Lewis diventano più che esplicite esibizioni di una gioiosa frenesia che è insieme spettacolo, gioco e sesso, ovvero la vita spericolata decantata dal rock. Accettarne il paradigma è prendere parte al fenomeno collettivo, lasciarsi contagiare e dunque sedurre, come i giovani spettatori intenti a scatenarsi sotto il palco al ritmo dei propri beniamini, tra ciuffi retrò, giubbotti di pelle o audaci minigonne. L’unione è così sancita, come dimostrano le esibizioni d’apertura delle band locali The House of Shakers e Screaming Lord Sutch and the Savages, questi ultimi che dopo aver inscenato la sconfitta della tradizione per mano della modernità, ne decretano la fine con lo scandaloso striptease di una ballerina sul palco. È il rock bellezza, o prendere o lasciare, “Hey Momma, look at me/I’m on my way to the promised land/I’m on the highway to hell”.