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Prince rules
Più di Purple Rain o Under the Cherry Moon, Sign o’ the Times consente di penetrare nel profondo dell’arte di Prince. Se infatti i due titoli di fiction succitati giocano sul personaggio da lui incarnato, angelico e diabolico, conturbante e seduttivo, il terzo film pone più l’accento sulla sua poliedrica creatività, attraverso una forma originale e innovativa di film concerto.
Ma è forse più appropriato parlare di Sign o’ the Times come di concerto film, perché l’operazione del 1987 stravolge i canoni del genere, mischiando narrazione e documentario calcando maggiormente sulla prima, trasformando così l’esibizione live in un’occasione per raccontare una storia tramite le canzoni in scaletta. Curiosa in questo senso la genesi del progetto. Concepito come canonica ripresa di tre date del primo tour europeo del musicista dopo la separazione dai The Rules, il girato si rivela inutilizzabile e Prince decide di ripetere le riprese nel suo Paisley Park Studios, riportando in scena l’esibizione dal vivo arricchita però da un montaggio più ricercato e un uso inusuale della scenografia. Come a teatro, il palco diventa così spazio di svolgimento della scena, ma come nel cinema i vari ambienti sono esplorati dalla macchina da presa sui tre assi direzionali, aumentando così il processo di sospensione della realtà e favorendo l’immedesimazione dello spettatore.
Giocando coi topoi del musical e ribaltandoli a proprio vantaggio sul modello del già citato Purple Rain, Prince mette in piedi uno spettacolo dall’alto contenuto erotico, forte della provocante fisicità del cantante e delle flessuose movenze della corista Cat, aggiungendovi però tutta la carica e l’istrionismo dei suoi concerti. Sign o’ the Times segna un passaggio importante nella carriera del polistrumentista che ritrova qui le radici funky, soul e rock dei primi dischi sostituite negli anni da sonorità decisamente più pop. Sul palco Prince esplora i diversi generi dimostrando di aver imparato la lezione dei padri (gli acuti in falsetto e la camicia strappata di Little Richard, le distorsioni chitarristiche di Jimi Hendrix, le ricercate coreografie alla James Brown o Chuck Berry), facendosi prediletto erede di quella schiera di artisti neri orgogliosi della propria appartenenza razziale e perciò capaci di giocare anche sugli stereotipi a essa associati, in primis quelli sessuali.
Prince incarna l’opposto di Michael Jackson: dove questo appare pulito, quasi asessuato e perciò rassicurante, il primo è invece il bad boy inquieto, violento ed esplicitamente carnale. Due modi diversi di vivere la propria identità storica e culturale, da una parte il desiderio di essere accettati dalla maggioranza fino ad annullare se stessi, dall’altra la volontà di intaccare l’equilibrio dominante e i suoi tabù in un provocatorio capovolgimento di valori.