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Una pietra miliare del cinema beat
Beat: colpo, battito. Tac tac sulla macchina da scrivere: prima il ritmo, poi pensieri e frasi. Una scrittura che flirta col bebop, da cui deriva musicalità e gusto per l’improvvisazione. Pull My Daisy, sprovvisto di dialoghi, si affida totalmente alla voce fuori campo di Kerouac, che snocciola la trama indugiando, con compiaciuto gusto per l’oralità, su libere associazioni al limite della scrittura automatica, nonsense e ripetizioni, ammassi di citazioni più o meno consapevoli che deflagrano in “holy holy holy”, eco di Ginsberg, qui nel ruolo di se stesso.
Ovvio che il film si ponga come pietra miliare del cinema beat, visto che si avvale della collaborazione di quattro campioni della scena letteraria (oltre ai già citati Kerouac e Ginsberg, anche Gregory Corso e Peter Orlovsky). Ma c’è di più: Robert Frank e Alfred Leslie tentano di trasferire la poetica beat dalla carta alla celluloide.
Tema caro al movimento è la rottura degli schemi tradizionali, sia letterari che sociali: nel film la rottura è espressa ed esasperata dai contrasti. A livello diegetico, con la contrapposizione tra la famiglia del vescovo e i good bad boys che gigioneggiano per casa. Le inquadrature, poi, sono perlopiù fisse, ma eccitate da un montaggio che gioca sull’estremizzazione dei movimenti interni. Buffo che un gruppo passato alla storia per dromomania si ritrovi ad ambientare il film in un interno. Tuttavia, come fa notare La Polla, “Pull My Daisy scava nel rapporto tra movimento e immobilità in funzione evidentemente critica nei confronti del ‘cinema d’azione’ commerciale e della sua supposta verosimiglianza”. Alternando sonorità classiche a sequenze decisamente jazz, con le irrinunciabili impennate di sassofono, anche la colonna sonora di David Amram partecipa di diritto al balletto degli estremi.
Beat come beatitude, in nome dell’eternità dorata. A parte la tirata gratuita sul buddhismo, la sceneggiatura trasuda misticismo, con domande a un passo dal koan zen (“Is baseball holy?”), e la limitazione dei movimenti di macchina permette un approccio a tratti meditativo, quasi un’esplorazione della coscienza.
Infine, degna di nota è la capacità di conservare il sapore dell’improvvisazione a livello filmico, in accordo con la prosa spontanea di Kerouac e con il mantra “first thought, best thought”. In verità Alfred Leslie ha dichiarato che recitazione, inquadrature e movimenti di macchina erano stati pianificati fin nei minimi dettagli, ma si tratta, appunto, di dettagli: quel che conta, su pellicola, è l’impressione.