[:it]
Alessandro Guatti su Sing Street, la commedia rock firmata da John Carney
“I’m a futurist”
Un’esplosione di entusiasmo, energia, freschezza, voglia di vivere e giovinezza: questo è Sing Street, ultima opera di John Carney, che sulla scia di Once – Una volta (Once, 2016) e Tutto può cambiare (Begin Again, 2013) torna a occuparsi di musica con “un film sulla gioia di fare musica” (parole del produttore Anthony Bregman), dove essa è un mezzo per costruire e rinsaldare amicizie e legami familiari.
Il coming of age del quattordicenne Conor, che nella Dublino del 1985 fonda una band con i compagni di scuola per corteggiare un’aspirante modella, è narrato con grazia ed ironia dal regista irlandese, che attraverso questa storia racconta anche un particolare momento del suo Paese, quando la sfiducia verso il futuro induceva moltissimi giovani a emigrare verso l’Inghilterra. Ma la vita di Conor non s’intreccia soltanto con la storia sociale del Paese, bensì anche con quella culturale: la narrazione esplora infatti la scena musicale degli anni Ottanta, contrapponendo il rock and roll del futuro al genere melodico del passato e connotando i personaggi sulla base dei loro gusti musicali (secondo Brendan “Nessuna donna può amare sul serio un uomo che ascolta Phil Collins”, mentre il patrigno Robert riferendosi ai Duran Duran afferma: “Questi non sono esattamente i Beatles, eh?”).
Lo spettro tematico del film è dunque molto ampio e profondo (tocca la crisi economica e il problema dell’educazione, il bullismo e le crisi familiari) ma la genialità dell’opera è insita soprattutto nella sua regia, che fonde estetica cinematografica ed estetica del videoclip, mescolando realtà e fantasia attraverso la musica (la meravigliosa sequenza delle nascita di Up o quella immaginifica della prova di Drive it Like You Stole It) per dirci quanto grande, in fondo, sia stato sulle nuove generazioni l’impatto culturale dell’invenzione del videoclip.
Il dialogo tra Robert (“Se questo è il futuro, siamo fottuti”) e Brendan (“È un video, Robert. È arte”) davanti alla tv che trasmette il video dei Duran Duran Rio è sintomatico di come la musica sia uno strumento utile non soltanto a trovare sé stessi e realizzare i propri sogni ma anche a rivelare il contrasto irriducibile tra la nostalgica generazione degli adulti (piena di cover band, ancorata alle musiche dei Beatles e convinta che la musica abbia senso solo se vissuta live) e quella dei giovani che approcciano il visivo come strumento per rendere eterna la musica. Le canzoni diventano anche forma di ribellione verso l’autorità in generale: degli adulti, delle istituzioni, del sistema. Cos’altro è infatti Brown Shoes se non la riaffermazione di una identità che si esprime attraverso l’abbigliamento, il trucco, la scelta di un genere musicale che ci definisce (“Non siamo più pop”), l’emergere di un’individualità all’interno dell’omologazione?
Se da un lato abbondano riferimenti alle canzoni e ai videoclip di Duran Duran, a-ha, Genesis, David Bowie, Depeche Mode, Michael Jackson, Queen (e pure i Village People!) − tutti perfettamente contestualizzati all’interno della narrazione − dall’altra si omaggiano anche film cult degli anni ’80 come Ritorno al futuro, non soltanto nominandoli ma riprendendone scene e momenti clou.
Sing Street è dunque un’opera profondamente citazionista, tanto musicalmente quanto cinematograficamente.
SCHEDA TECNICA
Sing Street (Irlanda, 2016) – REGIA: John Carney. SCENEGGIATURA: John Carney. FOTOGRAFIA: Yaron Orbach. MONTAGGIO: Andrew Marcus, Julian Ulrichs. MUSICHE: Gary Clark, John Carney. CAST: Ferdia Walsh-Peelo, Aidan Gillen, Maria Doyle Kennedy, Jack Reynor, Lucy Boynton, Kelly Thornton. GENERE: Commedia musicale. DURATA: 106’
[/column][:]