Attuale e datato
1968. In un attico di New York Michael e la sua cerchia di amici, tutti omosessuali, si riuniscono per festeggiare il compleanno dell’amico Harold. La presenza inaspettata di Alan, compagno di college di Michael, sconvolge gli equilibri. L’uomo è etero, piuttosto omofobo a dire il vero, non si è neanche mai accorto di Michael. Il nervosismo che Alan porta alla festa, arrivando perfino a picchiare l’effeminato Emory, fa da detonatore alla nevrosi e al sadismo di Michael che inaugura un gioco cattivo: ognuno dei presenti dovrà chiamare a telefono il proprio grande amore e dichiararsi.
C’è indubbiamente qualcosa che non convince di questo film.
È importante probabilmente sapere che il testo viene da un’opera teatrale di Mart Crowley datata 1968 sulla quale già un film, con la supervisione dell’autore, era stato realizzato nel 1970 da William Friedkin. L’autore, purtroppo scomparso recentemente, aveva dichiarato all’epoca di aver scritto la pièce per rabbia, non per attivismo politico: la rabbia causata dall’attitudine sociale che riscontrava all’epoca, totalmente chiusa nei confronti dell’omosessualità tanto da concedere, anche professionalmente, poco più che piccoli spiragli. Era, appunto, il 1968. La pièce fu uno shock per i soliti spettatori teatrali. Già l’anno dopo, il 1969, i cosiddetti “Moti di Stonewall” segneranno uno spartiacque nel mondo LGBT+ che, idealmente, nacque proprio allora.
Di The Boys In the Band, dicevamo, esiste un’affascinante versione quasi contemporanea con Kenneth Nelson e Leonard Frey. Una versione più cupa dato che, per il mondo LGBT+, fu come se qualcuno avesse preso di forza la macchina da presa e l’avesse fissata su quello che non si era voluto vedere fino ad allora.
Ecco, cosa non convince del remake, ricalcato sulla versione di Broadway del 2018 sempre diretta da Joe Mantello, di cui si è conservato lo stesso cast? Non certo il cast: Jim Parsons, lo sappiamo, è a suo agio nei ruoli sadici mentre Zachary Quinto sembra volutamente ricalcare Leonard Frey. Anche il tema centrale regge bene, lo scavare nella vita di un gruppo di amici omosessuali fino ad arrivare alle loro insicurezze e difficoltà ad affrontare la vita di tutti i giorni, contiene sicuramente degli spunti ancora oggi – purtroppo – attuali. No, quel che non convince sta decisamente nella forma: si sente forte l’impronta di un tipo di drammaturgia americana novecentesca che oggi suona vecchia, ecco perché alcune recensioni hanno definito il film “lento”. È piuttosto difficile invece far risultare la messa in scena più scattante di così se la scelta è quella di non mettere mano al testo teatrale e un improbabile remake di Chi ha paura di Virginia Woolf, testo che risente della stessa impronta drammaturgica, renderebbe lo stesso risultato. Invece, perfino le scelte musicali sono rimaste le stesse (del primo film): Love Is Like A Heat Wave di Martha and the Vandellas, Good Lovin’ Ain’t Easy To Come di Marvin Gaye e Tammi Terrell e poi Miles Davis, Herbie Hancock e Chet Baker per ricreare proprio quella stessa atmosfera di fine anni Sessanta nella New York dell’Upper East Side. Ancora, abbiamo detto come in quegli anni mostrare personaggi apertamente gay che si raccontano fosse sconvolgente. Questo tipo di shock – per fortuna – al giorno d’oggi si è perso: in più di cinquanta anni di rappresentazioni LGBT+ per fortuna ce ne sono state tante. Questo depotenzia anche affermazioni chiave come: “Chi era quello che diceva sempre ‘Mostrami un omosessuale felice e io ti mostrerò il cadavere di un gay’?”. L’omofobia è sempre un grosso, vergognoso problema del mondo occidentale, ma è incorretto dire che il mondo dal 1968 non sia cambiato e la figura dell’omosessuale triste e sofferente è diventata, da pugno nello stomaco, cliché. Al giorno d’oggi ci sono altri modi meno ovvi di mostrare il rapporto con la propria sessualità: il cinema e la serialità ci hanno mostrato anche omosessuali felici o situazioni più complesse.
In teatro, un testo come The boys in the band può avere ancora un senso dato che l’esperienza dei corpi che si muovono su un palco è qualcosa di diverso dal cinema. Al cinema invece funziona paradossalmente meglio come “time capsule” nella versione del 1970.