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Drammaturgie folk
Se nel 1971 Sam Peckinpah in Cane di paglia continuava la sua sofferta meditazione sull’every man come macchina da combattimento in un mondo iniquo, il suo collega d’oltreoceano John Boorman si inabissava, un anno dopo, nel cuore di tenebra della middle class americana girando Un tranquillo weekend di paura.
Poco importa che avrebbe dovuto esserci “l’ultimo westerner” a realizzare il film tratto dal romanzo omonimo di James Dickey, poiché il cineasta britannico non sfigurò e ne fece uno spericolato tuffo nell’ignoto a cavallo tra un western immerso nella natura selvaggia e un dramma avventuroso che inscena una feroce lotta di classe tra redneck e cittadini nelle acque dell’indomabile fiume Chattooga. La tematica del borghese stanziale, che si fa viator quando con i propri compagni cerca di oltrepassare il proprio limite sfidando la natura matrigna, è il punto da cui partire per l’analisi di un film che svuota la retorica del cinema di frontiera e mette in campo, nella spazialità claustrofobica dei fitti alberi e dalle alture spigolose dei monti Appalachi, una violenza cieca e pervasiva.
Nel sottobosco infernale georgiano Boorman rilegge e rifonda i generi cinematografici, indagando la questione politica del cinema americano di fine anni ‘60; in questo modo la simbolica discesa agli inferi in canoa sposta la riflessione dalle strade ruggenti di Easy Rider alle ripide minacciose del corso d’acqua, grazie alla fotografia cupa che desatura i colori, al climax incandescente dell’azione e, non per ultimo, alla funzione psicologica della colonna sonora. La mai troppo celebrata Dueling Banjos, variazione a due del motivo folcloristico Yankee Doodles, introduce in modalità diegetica lo scontro tra il tribalismo senza legge dei montanari e l’apparente compostezza dei cittadini, fin poi a esplodere dall’esterno diventando un accompagnamento sonoro che conferisce omogeneità al girato. L’impiego del folk per dare unità drammatica alle sequenze, fa in modo che il ripetersi ossessivo del leitmotiv e dei suoni naturali fungano da scoperta dell’alterità; stratagemma, questo, agli antipodi rispetto alla comunicazione interstellare immaginata in Incontri ravvicinati del terzo tipo e che è invece più vicino al significato del duello radiofonico che in Munich oppone l’ebreo del Mossad al palestinese ribelle.
Quasi a fare da eco alla dissoluzione dei generi che interessa Hollywood, il personaggio interpretato da Burt Reynolds sostiene che “bisogna perdersi per poter trovare qualcosa”, ed è proprio nell’ottica di una dispersione cinematografica ed etica che John Boorman riconsegna l’uomo ad uno spazio selvaggio e indomabile, nel quale è costretto a fare i conti con la propria metà oscura capace di trasformare ogni quieto “cane di paglia” in un sanguinario vendicatore.