Una storia di affetto
Monica è una donna bella e sensuale. Per vivere fa massaggi, almeno questo è quel che vediamo al principio. Improvvisamente, riceve una telefonata che la spinge a precipitarsi al capezzale della madre morente che l’aveva allontanata dalla famiglia. Sì, perché Monica è quel che si definisce AMAB, è cioè donna ma alla nascita gli è stato assegnato un corpo maschile ed ha fatto quindi la transizione.
Scopriamo andando avanti nella visione che la nostra non si spinge solo a fare massaggi ed è ben consapevole che gli uomini la cercano anche per fare “esperienze alternative”. Questo la fa arrabbiare. Inizialmente non si svela con sua madre ma riuscirà a recuperare il rapporto sia con lei che con il fratello.
Lento ma intenso, Monica è un film che mette la sua protagonista letteralmente sempre al centro. Questo non vuol dire che sia scevro da cliché. La protagonista si prostituisce, partiamo dal cliché che mi mette più in difficoltà: vorrei vedere storie di male to female che praticano altre professioni perché oggi – nonostante lo stigma sia ancora forte – queste storie ci sono e fornirebbero un altro tipo di modello. C’erano perfino in passato in verità, dato che nel documentario di Sébastien Lifshitz Casa Susanna (sempre proiettato a Venezia), una delle protagoniste AMAB dice di aver lavorato per anni, dopo la transizione, in ambito informatico. Tuttavia, il punto centrale di Monica non è la sua professione ma il rapporto con la madre (Patricia Clarkson) alla quale occorre il confronto con la vecchiaia – e la morte imminente – per capire che non importa se ha avuto due figli o un figlio e una figlia. Quel che importa è che entrambə le vogliano bene e le stiano vicino.
Dal punto di vista filmico, Pallaoro non molla mai Lysette. In una recensione in lingua inglese, ho letto un paragone forse un po’ spinto con Vitti/Antonioni, ci si soffermava soprattutto sull’Eclisse. L’intento è sicuramente simile, Pallaoro però ha il suo modo, il suo occhio: non c’è sempre bisogno di rapportare un talento fresco a un gigante del passato solo perché sono entrambi italiani e seguono una donna per molti versi “intrappolata”. Quanto a Lysette, a memoria credo sia il primo film che vedo dove un personaggio trans è sempre, costantemente al centro della scena esattamente come Cate Blanchett in Tar, alla pari. Finalmente, mi viene da dire – e lo dice anche Lysette in un’intervista su Elle speciale Venezia: “Io sono in ogni scena, questa è la sfida più grande”.
Andrea Pallaoro, l’autore, ha lasciato Trento a diciassette anni e ha avuto i mezzi per concedersi i migliori studi sulla piazza per chi vuol fare cinema a livello industriale. Classe 1982, questo vuol dire che i tormentoni e i pezzi con cui è cresciuto sono quelli della mia generazione: non deve stupirci quindi se Monica a un certo punto si trova a ballare Dragostea din tei o se la voce di Patti Pravo dagli anni Sessanta irrompe con Se perdo te. Ho letto “prelievi dolaniani” a proposito di Dragostea e di Moderat – sì, forse. Perché non unire il citazionismo ai propri ricordi. L’autore può essere culturalmente statunitense, ma la musica che ha nelle orecchie somiglia a quella che a queste latitudini ascoltava e ascolta la mia generazione, incluso Bizarre love triangle dei New Order con cui il film apre.