Metafora pop del degrado spirituale del mondo moderno.
Ferita a scuola in una sparatoria, al funerale delle vittime Celeste canta una canzone che diventa una sorta di inno nazionale. Le porte dell’industria discografica si spalancano ma il prezzo da pagare è alto. Non solo per Celeste.
Vox Lux, secondo lungometraggio di Brady Corbet dopo The Childhood of a Leader – L’infanzia di un capo (2015), è un film di una profondità che stupisce: potrebbe essere la solita storia sulla ragazzina che diventa star (ne abbiamo parlato ad esempio per A Star Is Born di Bradley Cooper), invece è un racconto complesso, che riesce a raccontare un mondo, oserei dire uno stato sociale, una condizione morale dell’Occidente. Certo è una visione molto definita, pungente e assai critica.
Classe 1988, Corbet dimostra di avere le idee chiarissime sull’industria culturale e sul cinema. Il film è strutturato in un preludio (esplicito riferimento musicale), due atti e un epilogo. C’è anche il coro, come in una tragedia greca: la voice over di Willem Defoe ci narra gli eventi da un punto di vista privilegiato di narratore onnisciente che anticipa, commenta, rivela. Non tutto infatti è visibile nel film, ma in questo caso non è una mancanza dell’opera: quando si tratta di mostrare, Corbet filma senza indugio (la violenza dell’episodio iniziale, che richiama la strage di Columbine). É ciò che c’è dietro il mondo di Celeste (Raffey Cassidy da giovane, Natalie Portman da adulta) ad essere invisibile agli occhi e pertanto alla macchina da presa. Solo il finale lo spiega, associando la voce fuori campo alla coreografia del concerto di Celeste, le cui canzoni sono scritte dalla cantautrice Sia ed interpretate davvero da Natalie Portman, bravissima a dare vita ad un personaggio che vive di chiaroscuri nell’alternanza tra le luci del palcoscenico e le ombre della situazione personale, con un rapporto molto complicato con la sorella (Stacy Martin), il manager (Jude Law) e la figlia (Raffey Cassidy, di nuovo).
La Celeste adulta ha perso l’innocenza perché è stata fagocitata da un mondo che l’ha resa un mostro di cinismo, sempre sull’orlo di una crisi di nervi, dipendente da alcol e droga, incline a sottovalutare tutto ciò che non ruoti intorno al dio denaro. Il suo rapporto con il presente è sfasato, come se Celeste non fosse pienamente cosciente del momento storico in cui sta vivendo e di ciò che accade intorno a lei. Il fatto che alcuni terroristi compiano una strage indossando le maschere di un suo videoclip la lascia quasi indifferente e non è difficile leggere in questa sequenza (che nella fluidità della sceneggiatura e del montaggio non si percepisce come un episodio a sé stante ma come un elemento perfettamente integrato al resto della narrazione, con un esplicito richiamo alla sparatoria iniziale) una lettura del presente dominato da una società anestetizzata, forse ormai a tal punto abituata alla violenza da perdere i propri punti di riferimento culturali. Celeste infatti afferma esplicitamente che la musica da lei proposta al suo pubblico in delirio è un pop che non deve far pensare, ma deve distrarre, divertire.
Vox Lux (il titolo si riferisce agli studi fondati da Celeste) è un film sul mondo della musica pop e sulle sue ombre, su un certo tipo di divismo contemporaneo. Ma è soprattutto un’ipotesi di lettura sul degrado morale dell’occidente, sul vampirismo dell’industria culturale, persino sull’elaborazione dello stress post-traumatico da cui sono affetti gli Stati Uniti.