Le interviste di Leitmovie: Susanna Nicchiarelli

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La mia Nico, la mia musica
Conversazione con Susanna Nicchiarelli

Susanna Nicchiarelli ci racconta la sua Nico, in un’intervista che si snoda tra cinema, musica e l’importanza dell’identità femminile nell’arte.

Appassionata e dotata di una sensibilità tutta sua, Susanna Nicchiarelli è una delle registe più apprezzate sul panorama nazionale, oltre che attrice e sceneggiatrice. Diplomata al Centro Sperimentale di Cinematografia nel 2004, dopo aver lavorato a diversi cortometraggi e documentari (Che vergogna!, Il terzo occhio), esordisce nel 2009 con il lungometraggio Cosmonauta. Quest’anno ha partecipato alla 74a Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia aggiudicandosi il premio come Miglior Film nella sezione Orizzonti per il film Nico: 1988, incentrato sugli ultimi anni di vita della cantante Christa Päffgen.

Con Nico: 1988 hai scelto di raccontare il volto di una Nico dimenticata, profondamente diversa rispetto a quella degli anni della Factory di Warhol. Come è stata concepita questa storia e come è stato per te raccontare la storia di un’altra artista?

Quella che ho voluto raccontare è la storia meno conosciuta perché credo sia sempre bello focalizzarsi su quello che nessuno sa. Il mio obiettivo non era quello di realizzare un biopic per i fan che vanno a riconoscere cose che già conoscono, io volevo raccontare una storia non comune dal momento che la stessa storia di Nico sfugge al cliché. Lei non era una star in declino che finisce i propri giorni rimpiangendo un’epoca di un passato glorioso.

Nico ha continuato a fare la propria musica, tra cui anche le colonne sonore dei film di Philippe Garrel, e ad andare in tour con la sua piccola band. Lei aveva un suo progetto artistico. Ed è proprio questo aspetto così originale che mi ha spinto a raccontare il volto della Nico che non si conosce, e che, secondo me, è anche il più sorprendente. C’è una frase fondamentale che lei dice nel film, “Nella mia vita ho raggiunto il massimo e toccato il fondo, ma entrambi i posti sono vuoti”. Il punto focale è che la vita vera sta nel mezzo, la stessa che ho voluto raccontare nel film, cioè la storia di una musicista che desidera andare in giro con la sua band per fare la sua musica. Nico aveva capito che il punto vero non è il successo o l’insuccesso. Il punto è chi siamo, la nostra identità.

Questo è straordinariamente attuale pensando alla figura di Nico come artista, ma in primis come donna. In questo senso che ruolo hanno avuto nella costruzione della storia le testimonianze di suo figlio, Ari?

Mi viene in mente il recente documentario su Amy Winehouse, dove c’è una sequenza in cui lei canta con Tony Bennett il quale, a posteriori, commenta: “Se potessi vederla ora le direi, ‘stai tranquilla che a quarant’anni la vita diventa bellissima’”. Questa è una cosa che non si dice mai, mentre continua a vivere il mito romantico di queste figure che muoiono a ventisette anni; tutti travolti da ossessioni, successi e insuccessi. Crescendo, un’artista acquista una sua consapevolezza e comprende anche il valore di quello che fa, qualcosa che va oltre i miti vuoti del successo e dell’insuccesso. Alla fine il successo non è mai abbastanza ed è sempre relativo. Per questo credo che il messaggio interessante del mio film, soprattutto, per i più giovani sia lo stesso di Tony Bennett.

Per quanto riguarda Ari, Nico ha commesso dei grandi errori rapportandosi con questo figlio. Tuttavia la vita delle persone è lunga e c’è tempo di recuperare. Io ho passato molto tempo con Ari, e quello che colpisce è il suo parlare della madre con un amore incondizionato. Questo è il motivo per il quale ho deciso di inserire Nature Boy nel film. Si tratta di una canzone che Nico non ha mai cantato, ma che io ho voluto utilizzare un po’ per omaggiare David Bowie, che ne fece una bellissima cover per Moulin Rouge!, ma anche perché il testo recita: “La cosa più grande che tu potrai imparare è amare ed essere ricambiato di altrettanto amore”. In questa frase io ci vedo l’esperienza della maternità, quella dell’amore completo e perfettamente corrisposto. L’impressione che ho avuto parlando con Ari è quella di un figlio che ama la madre di un amore totale, assolvendola da ogni colpa. Questa forse è l’esperienza più forte dei miei incontri con Ari e che ha influenzato anche lo spirito del film.

Nel film vi sono dei riferimenti agli anni della Factory, che tuttavia appaiono davanti agli occhi di Nico come visioni offuscate e lontane. Hai scelto volutamente di non utilizzare un pezzo simbolo di quella fase come Sunday Morning?

Tra i pezzi dei Velvet Undreground ho scelto soltanto i tre cantati da Nico, in particolare All Tomorrow’s Parties che, a mio avviso, è quello dal testo più bello. È una canzone che racconta la sofferenza femminile, mentre invece Femme Fatale è legata a un’identità che Nico stessa non ha mai amato. Anche I’ll Be Your Mirror è un bel pezzo, è una canzone d’amore, ma il tema della sofferenza di All Tomorrow’s Parties ti lascia immaginare tutte queste superstar di Andy Warhol che, una volta utilizzate, venivano buttate via come oggetti. Esattamente come accadde a Nico.

Ecco perché, nonostante le sue sofferenze, lei era una donna molto forte. Caratteristica che, probabilmente, ha fatto sì che non facesse la fine di tutte le altre. Era una che conosceva se stessa e il suo valore, ma anche cosa voleva fare. Questa è una cosa che a me ha molto colpito, ecco perché mi interessava raccontare una fase della sua vita successiva a quella della Factory. Un periodo che, a detta dei testimoni, è stato uno dei più felici nella vita di Nico. Forse è proprio questa sua forza che la rendeva diversa da altre figure molto note, come ad esempio Marianne Faithfull. Una donna bellissima ma fragile, rimasta indissolubilmente legata a quel passato.

Come hai individuato i pezzi che sono andati a comporre la colonna sonora, ti sei basata sulle scalette dei concerti degli ultimi anni?

Principalmente ho scelto le canzoni mentre scrivevo la sceneggiatura, attingendo al bacino immenso delle canzoni composte da Nico tra gli anni ’70 e gli anni ’80. Un repertorio in cui ho individuato i pezzi che secondo me erano più giusti per un dato momento del film. My Only Child per esempio è stata scritta quando Ari aveva sette o otto anni, tuttavia io ho scelto di usarla perché racconta il loro rapporto attraverso il tempo. L’altra canzone a lui dedicata è Ari’s Song, ma dovendo scegliere ho optato per My Only Child perché secondo me è più bella. Ho seguito il mio gusto ma anche l’atmosfera del film.

Il suono creato da Gatto Ciliegia Contro il Grande Freddo rievoca molto le atmosfere dei brani di Nico. Che lavoro è stato fatto per creare una colonna sonora che cucisse insieme i pezzi di Nico e il commento musicale?

Prima di girare è stato fatto un grandissimo lavoro in studio. Ci siamo trovati con Trine Dyrholm e i Gatto Ciliegia a lavorare sugli arrangiamenti e sull’uso della voce. Trine ha dovuto trovare una sua voce, quella della sua Nico, mentre i Gatto Ciliegia hanno fatto degli arrangiamenti rispettosi dei brani originali, ma allo stesso tempo con la dovuta libertà. Io ho lavorato con loro sin dal mio primo film, le loro atmosfere sono molto malinconiche ed è anche per questo che il loro modo di fare musica è molto vicino alla mia sensibilità. Non sono mai troppo sentimentali, mai troppo retorici, ma hanno questa vena malinconica, sperimentale e progressiva molto bella. Grazie a questo sono stati in grado di riattualizzare le musiche di Nico nel loro stile, insieme, ovviamente, al contributo di Trine, la quale è un’artista e cantante: da ragazzina vinse anche l’Eurovision.

Motivo per cui con lei abbiamo trovato Nico dapprima attraverso la musica e i gesti. Un lavoro grandissimo in cui Trine ha dovuto peggiorarsi la voce, prima di iniziare a recitare. Una delle cose particolari di Nico infatti è che  cantava stonato, abbassando molto la voce. Trine ha fatto di tutto per adeguarsi a questo stile, lavorando sulle stonature, sulle imperfezioni e sulle sporcature. Un approccio molto fisico che è andato di pari passo alla lettura di interviste e documenti, per un lavoro d’insieme molto articolato e che è passato, in gran parte, attraverso la musica.

Hai scelto di colorare il tuo film con una serie di dettagli. Mi riferisco alla bottiglia di limoncello o al braccialetto rubato. Tuttavia ce n’è uno particolarmente interessante, cioè il registratore che Nico porta sempre con sé. Si tratta di un dettaglio reale o creato da te?

Il registratore è reale, Nico iniziò a portarselo appresso dal momento in cui Ari entrò in coma. In ospedale infatti lei voleva registrare il rumore dei macchinari che tenevano in vita il figlio. Da questo particolare io ho cercato di costruire qualcosa che caratterizzasse tutto il film, e che rimanda al suono indescrivibile che lei cerca. Nello specifico si tratta di una cosa che ho scritto io a partire da una frase di un’intervista. Tuttavia il fatto che lei fosse davvero ossessionata dal rumore delle bombe che aveva sentito da bambina cadere sopra Berlino è reale.

A un certo punto del film Nico dice di essere contenta che la bellezza l’abbia abbandonata, dal momento che quando era bella non era felice. Alla luce di questa frase la lettura dei versi di Wordsworth assume un senso particolare. Si tratta di qualcosa che è stato creato per il film?

Lei leggeva molto ed era appassionata di poesia, il suo primo album prende il nome da una raccolta di Wordsworth (The Marble Index), ma l’episodio della lettura del passo di Splendore nell’erba l’ho scritto io rifacendomi proprio a questa sua passione. Il brano, che vede il passato come una cosa romantica a cui restare aggrappati, è stato scelto proprio per sottolineare un certo antiromanticismo tipico di Nico.

Un’idea, la sua, per cui gli anni più belli non sono mai gli anni più belli. Anch’io mi ricordo, ad esempio, al liceo ero profondamente infelice. Questo perché quando sei giovane non sei ancora completo dal punto di vista professionale, non sai bene chi sei. La felicità, l’identità sono cose che si costruiscono con il tempo proprio perché la vita non va in una sola direzione. Ed è proprio per questo che quell’idea romantica di passato vuole essere in netto contrasto con il senso del film. Nico non ha bisogno di consolazione. I ricordi stessi nel mio film non sono consolatori anzi, possono essere anche molto fastidiosi. Lei è una donna che pensa al presente e al suo futuro, desidera essere una persona normale senza mitizzare l’epoca in cui si faceva di LSD.

Per una donna, e non solo, un messaggio di questo tipo è molto significativo, soprattutto in questo presente. Proprio per questo ti domando, anche alla luce dello scandalo Weinstein, come vedi tu da donna la figura femminile nel mondo del cinema? In particolare ora, dopo aver raccontato una figura come Nico…

Io credo che la donna sia ancora in una posizione molto subordinata, soprattutto in alcuni ambienti. Nonostante tutto è ancora un elemento debole nei rapporti lavorativi e sente di dover riparare a questa sua debolezza; qualcosa che può essere dovuto alla sua giovinezza, che la rende preda da sfruttare come nel caso Weinstein, ma anche alla sua maturità, quando diventa poco interessante sessualmente e quindi viene scartata.

In un modo o nell’altro è una fregatura. Inoltre le capacità di una donna sembrano essere sempre subordinate a una sorta di potere erotico, un qualcosa che dovrebbe essere eliminato da qualsiasi tipo di rapporto lavorativo. Questo continuo superare i confini fa sì che i rapporti lavorativi troppo spesso diventino personali, ed è una cosa che danneggia noi donne più di chiunque altro. Penso al mio lavoro ad esempio, noi registe siamo poche. Così come sono poche anche quelle che ci provano, che fanno domanda al Centro Sperimentale, quasi come se questo salto implicasse qualcosa. Per questo si viene a creare una situazione castrante. Sceneggiatrici, produttrici ce ne sono, ma a quanto pare la figura della donna regista continua a faticare per venir fuori.

Io sono sicura che le registe ci siano, il problema è che dovrebbero combattere per emergere. Quelle che ce la fanno sono brave e supportate, ma sono comunque poche. Io credo che sia con l’esempio che si possano cambiare le cose. Mi viene in mente negli anni ’90, quando sono cresciuta su Rai 3 c’era La tv delle ragazze. Per me è stato importante vedere delle donne che facevano ridere, che dicevano cose interessanti. È stato un dettaglio importante nella mia formazione e credo che sia quello che dobbiamo fare noi, dando coraggio ed esempio alle ragazze più giovani.

In questo senso quali sono state le figure femminili che ti hanno influenzato di più?

Sicuramente mia nonna, poi mia mamma che era professoressa di matematica. Poi sicuramente figure femminili che nel corso degli anni mi hanno colpito perché hanno fatto qualcosa di forte, con tutte le difficoltà che questo comporta. Però non saprei individuare una figura particolare.

Hai memoria di un episodio che ha fatto scattare in te la passione per il cinema?

Il ricordo di cinema più intenso che ho è quando sono andata a vedere al cinema E. T. – L’extraterrestre a sei anni. Mi ricordo una sequenza in particolare, quando sembra che E.T. stia per morire; oltre al finale, ovviamente. Quello che rappresenta la separazione tra il bambino e l’extraterrestre, il loro rapporto stesso è la metafora perfetta di un amore completo, è identificazione e simbiosi. Per questo suo messaggio lo trovo straordinario e io stessa lo ricordo come il primo film importante che ho visto al cinema; all’epoca della sua uscita in Italia io avevo praticamente l’età di Drew Barrymore. Sarà per questo che è rimasta come una delle mie esperienze più intense con il cinema, qualcosa che mi ha seguito per tutta la vita. È un film che ancora oggi a rivederlo mi emoziona.

E per la musica?

Sicuramente l’album The Velvet Underground & Nico. Per me è stata una delle esperienze musicali più importanti della mia vita, ma credo anche per chiunque sia appassionato di rock. L’amore per Nico nasce anche come riconoscimento dell’importanza di quell’album.

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