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The Smiths ovvero l’importanza di essere anonimi
Nell’ottobre del 1982, quando The Smiths facevano il loro debutto dal vivo al Ritz di Manchester, Margaret Thatcher, uscita trionfante dalla guerra delle Falkland, si accingeva a rivincere le elezioni, la Gran Bretagna iniziava lentamente a uscire da una terribile crisi economica che l’aveva lasciata povera e deindustrializzata e nella musica inglese la rabbia del punk si era ormai esaurita e aveva lasciato il posto da una parte alla cupezza del dark/new wave (Joy Division, The Cure) e dall’altra alla voglia di evadere nella leggerezza del pop più glamour (Duran Duran, Spandau Ballet).
In qualche modo The Smiths, figli della piccola borghesia di quella Manchester decadente portata dai Joy Division al centro della scena musicale, rappresentarono una sintesi di queste due tendenze musicali contrapposte, unendo testi romantici e malinconici che raccontavano la solitudine e l’incapacità di omologarsi (“dai fuoco alla discoteca, impicca il dj perché la musica che suona costantemente non mi dice niente della mia vita” canta Morrissey in Panic) con melodie intense ma orecchiabili e ariose. La scelta di presentarsi come il massimo dell’ordinario e dell’anonimo (dal nome scelto perché il più diffuso in Gran Bretagna, ai vestiti da bibliotecari e agli occhiali di Morrissey che erano quelli forniti dalla mutua) rappresentò poi, tra rockstar truccatissime vestite in modo sgargiante ed eccessivo, una geniale trasgressione.
Ma The Smiths sono stati molto più di questo: confusione sessuale, Oscar Wilde (“Keats e Yeats sono dalla tua parte, ma tu perdi perché quello strano amante di Wilde è dalla mia” da Cemetry Gates), vegetarianismo militante (“Questa bellissima creatura deve morire e una morte senza ragione è assassinio” da Meat is Murder), grandissima ironia (in The Queen Is Dead la regina rivolta a Morrissey “Ti conosco, non sai cantare” e lui “Questo è niente, dovresti sentire come suono il piano”), depressione, amore e morte (“e se un autobus a due piani ci investisse, morire al tuo fianco sarebbe un modo paradisiaco di morire” da There Is a Light That Never Goes Out). Splendide ballate e pezzi veloci in cui la voce lamentosa e stridente di Morrissey e la chitarra di Johnny Marr (con sonorità che a tratti ricordano gli arpeggi di Roger McGuinn dei The Byrds) si completano meravigliosamente dando vita ad un suono inconfondibile.
In poco più di venti minuti la puntata dedicata a The Smiths di Rock Legends, serie britannica di documentari musicali dedicata alle star della musica, ripercorre, attraverso gli interventi di quattro giornalisti musicali, la breve storia del gruppo (dal 1982 al 1987), con l’ausilio di alcuni aneddoti e di spezzoni di alcuni videoclip della band (This Charming Man, How soon is now, The Queen Is Dead, Panic, Girlfriend in a Coma e Stop Me If You Think You’ve Heard This One Before).
In soli quattro album (The Smiths, Meat Is Murder, The Queen Is Dead e Strangeways, Here We Come) The Smiths hanno cambiato la musica britannica, influenzando gruppi come The Stone Roses, Oasis, Suede, Pulp e Blur, e tutto il Britpop degli anni novanta.
SCHEDA TECNICA
Rock Legends: The Smiths (Gran Bretagna, 2015) – REGIA: Lyndy Saville. SCENEGGIATURA: Laurence Warder. MONTAGGIO: Laurence Warder, Thomas Aston . CAST: John Aizlewood, Danielle Perry, Will Hodgkinson, Camilla Pia. MUSICA: The Smiths. GENERE: Documentario, Musicale. DURATA: 22’38”.
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