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Rosebud Callas – Lo spettacolo è Maria
Nell’intervista che funge da ossatura al documentario Maria by Callas, la soprano spiega quanto si senta duplice: da una parte c’è Maria, la donna fragile, dall’altra la Callas, la professionista inflessibile. È questa la semplificazione, la narrazione, la “vulgata” da cui parte il mito della Divina. Orson Welles però ci insegna che, nel ricostruire post-mortem la vita dei grandi, talvolta sfuggono dei dettagli che, se afferrati, portano a galla di quella data persona sfumature inaspettate.
Di film di questo genere, dove un’icona deceduta si racconta, ce ne sono e ce ne sono stati: basti pensare a Senna (2010) e Amy (2015), entrambi di Asif Kapadia. Con la Callas però l’effetto è diverso: lasciare che sia lei a raccontare se stessa vuol dire anche lasciarla libera di esporre le sue personali contraddizioni.
Il primo contrasto è la scissione fra quello che dice e come lo dice: nonostante la continua insistenza, nelle interviste, sul valore dell’onestà, è impossibile crederle del tutto quando sostiene che infondo avrebbe desiderato una famiglia come ogni donna normale al posto di una carriera omnipervasiva. E sono le perle alle orecchie, il tono pacato ma soprattutto lo sguardo studiato, che nella vecchia Hollywood avrebbero definito “solleva tavolini”, che ci suggeriscono altro. Piuttosto, Maria ha costruito la Callas, la donna ha forgiato la dea. Quando? Il documentario non lo mostra: il periodo meno glam della carriera della soprano (1948-1951) è saltato a piè pari. Eppure fu lì che Maria arrivò a fare cose pazzesche come cantare più opere contemporaneamente, raffinare la propria tecnica (con l’aiuto della coppia Legge-Schwarzkopf) o dimagrire tanto velocemente per imitare lo stile di Audrey Hepburn, che perfino il maestro Giulini non la riconobbe. Maria la Callas la desiderò e la ottenne, bella come una diva e oltre l’umano come una voce che sfida ogni limite (e la perfezione delle sue scale, anche le più ardite, è testimoniata da varie registrazioni). Studiò la Hepburn come le nuove dive del pop studiano lei, le sue sfuriate nei camerini, il distacco ironico delle sue interviste al volo. Nella fila delle Eve Harrington, la prima è sicuramente Madonna (stiamo parlando d’immagine, non certo di voce).
Insomma Maria, il suo corpo, i suoi occhi, i suoi sguardi calcolati, i suoi cappellini, le pellicce, tutto ciò dice più di mille parole. Si era auto-creata e forse a un certo punto si è sfuggita di mano. Non si accenna al lato oscuro della divina stacanovista inflessibile, quello che insinua ai posteri che, oltre al santino della donna “forte e fragile” e del dolore dell’illusione d’amore, ci fosse di più. Ad esempio (uno per tutti), si mostrano molte immagini del tour dei recital con Di Stefano negli anni ‘73-’74, ma si tace che a fine tour, mentre la figlia del tenore stava morendo, la Callas sgridava la moribonda a telefono ricordandogli i doveri operistici del padre e liquidava il dolore di Di Stefano intimandogli di tenerselo per sé (la fonte è l’ex moglie del tenore, nel libro Callas nemica mia).
Quello che Tom Volf, più involontariamente che volontariamente, ha colto di Maria è la sua carica profondamente irrazionale, profondamente (auto)distruttiva nascosta dal self-control auto-impartito. Pasolini aveva visto giusto (“mi affascina in lei questa violenza dei sentimenti” scrisse). Quella è la Maria che smuove gli animi e rende il documentario a suo modo commovente. E sono da apprezzare i quattro anni di ricerca che hanno portato sul grande schermo filmati in super8 (dunque, purtroppo, muti ma è già tanto che esistano) di rappresentazioni (Butterfly, Traviata, Norma) e momenti privati. C’è il famoso viaggio sul Chrisina O. nel quale nacque l’amore per Onassis. C’è un filmino delle vacanze in Grecia nel quale la diva canta a una fiera di quartiere. C’è una serata al circo nella quale scherza con un elefantino. Anche solo per questi spezzoni, alcuni attesi da anni, vale la pena vedere il film. Del resto, la Callas non sembra essere mai morta anche perché esce materiale audio inedito, da tempo, quasi ogni anno. Nessuna icona operistica è mai stata più pop, in senso warholiano. Neanche Pavarotti.